SIAMO UN INCROCIO DI VIE, DI IDEE, DI PROPOSTE, DI LIBRI, DI COSE...
RECENSIONI
VITA DA FAINA
Monica
Animali come uomini che si muovono, da animali, in un ambiente umanizzato, ancorché boscoso. Tane con letti e comodini e cucine. Ma senza nessuna concessione a leziosità disneyane, anzi. Questo libro dal titolo bellissimo è l’autobiografia di una faina, una faina né buona né cattiva, piena di pregi e difetti, proprio come un umano. E che come un umano percorre una sua strada verso la conoscenza di un sapere che possa dare un senso alla sua vita e che magari possa lasciare un segno anche dopo.
È l’opera prima (e speriamo non ultima) di un giovanissimo scrittore italiano che, perlomeno a me, regala molta speranza nel futuro della narrativa.
Divertente, commovente, trascinante.
Bernardo Zannoni
I miei stupidi intenti
Sellerio, pagg 243
16 euro
LA MACCHINA ZERO
Monica
Come sarebbe oggi la storia dell’elettronica italiana se fossero sopravvissuti Adriano Olivetti e Mario Tchou (o Mario Zhu, 马里奥朱), invece di morire d’infarto il primo e di incidente d’auto il secondo, a 37 anni? Inutile fare la storia con i se, insensato suggerire un complotto, ma di certo la vicenda di questo ingegnere cinese nato e cresciuto in Italia, oltre a essere indubbiamente affascinante e coinvolgente, ci apre tanti interrogativi sul possibile e mancato futuro di un computer tutto italiano progettano negli anni ‘50. E bene ce la raccontano in questa graphic novel i due collaudati autori Ciaj Rocchi e Matteo Demonte, che ci auguriamo di avere presto ospiti in libreria.
Ciaj Rocchi e Matteo Demonte
La macchina zero
Solferino, pp. 192
20 euro
LE CATTIVE
Matteo
Con una scrittura originale, il lettore è proiettato all’interno della vita della transessuale Camila che ruota intorno al Parco Sarmiento in Argentina.
Il libro è un inno alla libertà contro l’ipocrisia di un mondo che cerca in tutti i modi di ingabbiare il corpo e il desiderio.
Camila Sosa Villada
Le cattive
Edizioni SUR, 2021, tr. Giulia Zavagna, pp. 223
16,50 euro
Le Canaglie
MATTEO
“Una banda di fascisti vince lo scudetto”, così si esprimeva Pier Paolo Pasolini nel 1974. Di quella Lazio si è detto tutto e il contrario di tutto, avvolta com’è ancora oggi in una coltre di enigma e mistero.
Angelo Carotenuto prova a raccontarci quella squadra in un libro tesissimo e molto denso, con una scrittura tutta scatti ed energia degna di un’inchiesta giornalistica. La storia è raccontata attraverso le parole e i ricordi del fotografo Marcello Traseticcio, che accompagna questi calciatori gaglioffi. Il lettore riesce così ad entrare in presa diretta all’interno dei fatti, in un arco temporale che va dall’ottobre del 1971 al gennaio del 1977.
La Lazio è lo specchio di una Roma stracciona e sontuosa allo stesso tempo e, più in generale, dell’Italia mai come in quegli anni terribilmente divisa. Il libro di Carotenuto racconta una società divisa in due, spaccata come lo spogliatoio della Lazio, metafora di quello che stava accadendo in Italia (il rogo a Primavalle, l’omicidio Pasolini e il colera a Napoli, solo per citare alcuni terribili accaduti in quegli anni). Il calcio e la politica vivono in osmosi, anzi non c’è nulla di più politico del calcio. Così non sembra neppure un caso che proprio il giorno della vittoria dello scudetto, il 12 maggio del 1974, fu anche quello della vittoria del referendum sul divorzio.
Come l’Italia, anche quella Lazio si divide in due clan: uno capitanato da Giorgio Chinaglia, il leader carismatico, e Pino Wilson, capitano in campo, e l’altro da Luigi Martini e Luciano Re Cecconi, amici fin dai tempi dei militari. Memorabili le partitelle del venerdì pomeriggio a Tor di Quinto, seguitissime dai tifosi per vedere picchiarsi tra di loro i giocatori, battaglie all’ultimo sangue per decidere chi avrebbe comandato all’interno dello spogliatoio. Tutto però sotto il controllo vigile di questo uomo d’altri tempi, che aveva fatto la Resistenza, e che si è sempre dichiarato più padre che allenatore: Tommaso Maestrelli, definito da Giovanni Arpino “antimago”, “balia” e “padre di famiglia”.
Questo è il romanzo di una squadra di calcio che ha travolto ogni regola, di un gruppo di ragazzi passionali, mentre l’Italia stava attraversando il suo periodo più anarchico e sregolato, quello degli anni di piombo. Da leggere
Angelo Carotenuto
Le canaglie
Sellerio, 2020, 364 pp.
16,00 €
Terra Alta
Matteo
Javier Cercas non si smentisce mai e ancora una volta regala un libro difficile da imbrigliare in qualche categoria, a metà tra il metaletterario e il filosofico. Ma questa volta lo fa utilizzando un genere che fino ad ora non aveva mai esplorato: il thriller. Un giallo di formazione con forte tensione psicologica e morale.
Libro polifonico sotto molti aspetti, i protagonisti sono diversi: l'antieroe e protagonista Melchor Marìn, con un passato duro alle spalle che, da appassionato lettore de I Miserabili, decide di fare il poliziotto perché si immedesima nell’ispettore di primo grado Javert, che fa della cattura di Jean Valjean uno scopo di vita, fino al loro drammatico faccia a faccia finale.
Proprio il romanzo-mondo di Victor Hugo è un altro protagonista del libro di Cercas. Il nostro Marìn non solo dialoga con i protagonisti del romanzo francese, ma, dopo l’omicidio dei coniugi Adell che sconvolge tutta la Terra Alta, comincia una riflessione introspettiva che lo fa oscillare di volta in volta tra il rigido Javert e Jean Valjean. l’ex forzato perseguitato dalla legge ma di sconcertante umanità e bontà, che ricorda al nostro ispettore che “tutto quel che le dovrà toccare in sorte le è già toccato; tutto ella ha patito, tutto sopportato, tutto provato, tutto sofferto, tutto perduto, tutto pianto. Ma è un errore supporre di esaurire la sorte e di toccare il fondo di qualsiasi cosa. Colui che lo sa vede tutta l’ombra”.
Poi c'è l'ambientazione: la Terra Alta, zona aspra, ventosa e rude della Catalogna, conosciuta soprattutto, anzi molto probabilmente solo, per la sanguinosa Battaglia dell'Ebro durante la guerra civile spagnola. Anche l’ambiente interagisce con un caleidoscopio di personaggi che risultano allo stesso tempo loschi, arrivisti, buoni, cattivi, deboli, forti e metafisici, come il messicano don Armengol, l’eminenza grigia, anzi una vera e propria apparizione fantasmagorica, che tiene le fila di tutto il romanzo, o Salom, il collega di Melchor.
Cercas scrive un poliziesco che è innanzitutto una riflessione sul bene, il male e la giustizia. Perché alla fine la frase che per tutto il libro perseguita il lettore è questa: "la giustizia assoluta può essere la più assoluta delle ingiustizie".
Javier Cercas
Terra Alta
trad. it. di Bruno Arpaia, Guanda, 2020
19,00 €
I due Ma
MONICA
Metti due cinesi, padre e figlio, che arrivano a Londra negli anni Venti, metti che mentre si barcamenano tra abitudini cibi e stili diversi si innamorino inaspettatamente di due donne inglesi, sbattendo inevitabilmente il naso contro pregiudizi e convenzioni radicate. Il tutto narrato, con un piglio tra Dickens e Woodehouse, dalla penna magistrale di uno scrittore cinese classico e moderno assieme: il risultato è una commedia brillante, amara, sarcastica, malinconica, graffiante, con toni e temi di sconcertante attualità. Ideale sotto l’ombrellone o nell’abetaia, divertente e istruttivo a tutte le età.
Lao She
I due Ma, padre e figlio
Mondadori, pp. 372, tr. Maria Gottardo e Monica Morzenti, 2021
14,50 euro
Il re ombra
MATTEO
Non c’è che dire il libro di Maaza Mengiste, etiope che vive da anni a New York e che per questo libro ha letto, come una vera e propria detective, tanta memorialistica e carte d’archivio, è davvero bello, uno dei migliori tra i romanzi usciti nei primi sei mesi del 2021.
Difficile però inquadrarlo, e forse anche in questo risiede il suo fascino. Romanzo storico, perché parla di una giovane etiope (Hirut) che diventa un soldato nella seconda guerra etiope-italiana scoppiata nel 1935, ed anche perché è una profonda riflessione sull’impossibilità di avere una memoria e una colpa collettive, e di come la storia formi le identità singolari e anche di come possa manipolare la memoria. Ma è anche romanzo politico, perché in ballo c’è la questione del corpo delle donne, violentato e abusato in una società di stampo patriarcale. Forse però è soprattutto un romanzo intertestuale corale ed epico. Un libro polifonico intermezzato da fotografie solo descritte, che danno la possibilità al lettore di farsi diverse domande: le fotografie vorrebbero giustificare la violenza sulle persone, la guerra? La macchina fotografica può essere uno strumento di complicità?
E interrotto spesso da un coro, la prima volta elemento volutamente spiazzante che però piano piano riesce ad integrarsi perfettamente nel romanzo che inizia e si chiude nel 1974 alla stazione ferroviaria di Addis Abeba, dove due scene tra loro legate racchiudono un flashback di sei anni, dal 1935, quando Mussolini ordina l’invasione dell’Etiopia, al 1941, quando la strenua resistenza etiope risulta vittoriosa.
Proprio il coro avvicina il romanzo di Maaza Mengiste alla tragedia greca e all’Iliade. Ma mentre nel poema omerico la guerra la fanno gli uomini, qui, come nel caso di Pentesilea nella guerra di Troia, la guerra viene raccontata dalle donne. Proprio perché scritta dal punto di vista femminile, è presente una pietas che mostra come all’interno di uno stesso personaggio possa esserci sia il bene che il male. Questo succede al capo della resistenza etiope Kidane, ma anche alla moglie Aster e soprattutto ad Ettore Navarra, il personaggio più emblematico del libro. Navarra vive proprio in quella zona grigia, dove bene e male spesso coincidono e si toccano. E’ il fotografo della guerra e testimonia delle violenze e delle efferatezze commesse dagli italiani sugli etiopi, è da questo punto di vista un persecutore che trova nel comandante Fucelli il suo padre putativo. Ma è anche ebreo e di lì a poco, solo tre anni dopo lo scoppio della guerra in Etiopia, diventerà un perseguitato.
In questa profonda ambivalenza ruotano le figure del romanzo di Maaza Mengiste e rendono particolarmente interessante la storia, perché in fondo è la zona grigia quella che desta di più la nostra attenzione di lettori.
Maaza Mengiste
Il re ombra
trad. it. di Anna Nadotti, Einaudi, 426 pp.
21 euro
Alabama
MATTEO
Ecco l’ultima impresa di Alessandro Barbero: un romanzo storico, ambientato nel 1941, che parla della guerra civile americana. Ma lo fa da un punto di vista interessante e nello stesso tempo sconcertante: quello di un vecchio sudista, Dick Stanton, quello che oggi definiremmo un suprematista. Un uomo bianco povero, quindi scordatevi i grandi latifondisti di Via col vento, che fa parte di un mondo duro e violento, convinto di vivere il sogno americano e che si è costruito una società a sua misura.
Il libro racconta in particolare la battaglia di Chancellorsvile, ma quello che più interessa alla protagonista femminile del romanzo, che fa da controcanto a Dick, una studentessa universitaria del sud che si è trasferita al nord per studiare, è il massacro di gente di colore che si è compiuto a battaglia quasi conclusa e di cui Dick si è macchiato insieme ad altri suoi compagni. In questo flusso di coscienza, tra rimossi, oblio e ricordi, viene fuori l’immagine di un uomo che crede in una società egualitaria, che quello che ha creato con le sue forze è suo, ma che, nello stesso tempo, può credere giusta la schiavitù.
Barbero anche con un romanzo riesce a offrirci una vera e propria lezione di storia. Prima di tutto ci dice che nella storia è insita una tragedia, che consiste nell’enorme difficoltà di dialogare con il passato, perché siamo prigionieri della storia e pensiamo di essere sempre e comunque migliori dei nostri antenati. Poi che una memoria condivisa non esiste, ma esistono solo ricordi soggettivi e quindi viene messo in gioco lo stesso principio della verità storica. In America purtroppo il problema della minoranza, il problema razziale, non è stato risolto. Chi ha fatto la pace sono stati solo i bianchi del sud e quelli del nord, nonostante si facessero portavoce di due visioni del mondo e di tradizioni opposte: da una parte l’industrialismo e dall’altro l’universo rurale, da una parte l’abolizionismo e dall’altra lo schiavismo.
Proprio per questi motivi, quello che Barbero vuole che succeda è che il lettore provi simpatia per Dick e i suoi commilitoni, che vengano giudicati per quello che sono nonostante tutto, ossia delle brave persone.
Questo romanzo è nato in quasi dieci anni di lavoro e letture, in particolare la memorialistica in lingua inglese sulla guerra di secessione, ma è uscito in un momento cruciale: la richiesta del movimento Black Live Matter, sulla scia delle indignazione nate dopo il massacro di Charleston, di abbattere i monumenti e i memoriali confederati. La richiesta del movimento e il romanzo di Barbero ci dicono ad alta voce che la guerra civile americana non è stata risolta. I morti della guerra di secessione sono stati molti di più di tutti quelli delle guerre americane del Novecento. Questa guerra quindi, più di tutte le altre, ha lasciato una enorme scia di rancore, e ricorda la situazione italiana, sia per quanto riguarda il fascismo che per la divisione nord e sud durante e dopo l’unificazione della penisola. Anche nel nostro caso il passato non è stato digerito.
Quello che fa questo libro è proprio farci riflettere sull’importanza e l’ambiguità della storia, che può e deve essere sempre rimessa in gioco.
Alessandro Barbero
Alabama
Sellerio, 272 pp., 2021
15,00€
Soldato tartaruga
MATTEO
Anche nel caso del romanzo di Melinda Abonji tutto è segnato dalla guerra civile jugoslava degli anni novanta e ci regala un bellissimo personaggio letterario, molto simile al tenente Livius di Hász.
Con una scrittura a tratti difficile ma sempre piacevole, il libro è diviso in diversi capitoli che seguono due diversi punti di vista. Alcuni in cui parla la cugina del protagonista, Zoltán Kertész, che sta tornando in Vojvodina per incontrare la madre di lui e fare visita alla sua tomba. Altri invece in cui parla direttamente Zoltán, scaraventato dalla sua vita bucolica, nella quale sposta sacchi di farina in un retrobottega, cura teneramente i fiori del suo giardino e riempie di parole inventate le caselle del cruciverba, a quella di soldato nell’esercito dell’Armata popolare.
Ma Zóltan, una specie di mistico idiota che ricorda alcuni personaggi di Dostoevskji, non è fatto per il mondo crudo della guerra, tutte le volte finisce per fare le domande sbagliate ai suoi superiori, ma con la sua anima candida mette in scacco il gioco omicida del conflitto, lo ribalta in quello che è davvero, mostrandone le incongruenze e le crudeltà. In modo commovente e sensibile, sia la cugina che Zóltan restituiscono al lettore l’assurdità e l’illogicità della guerra e mostrano la distruzione di un paese, dei suoi valori e delle sue tradizioni.
Melinda Nadj Abonji
Keller, 2021, pp. 193 trad. it. di Roberta Gado
16 euro
Un tempo senza storia
LUDOVICA
Nel profluvio di libri pubblicati nelle ultime settimane in occorrenza del Giorno della Memoria, segnalo un libretto di Adriano Prosperi dal titolo Un tempo senza storia. La distruzione del passato: un libro di chiara intelligenza e profonda consapevolezza teorica, una disamina dell’attuale disinteresse verso la storia e una riflessione sulle prospettive future. All’origine di questo sgretolarsi della nostra coscienza storica ci sono svariate ragioni, di ordine politico e sociale, ma il nodo del problema ha a che fare con Auschwitz: «non si può guardare ad Auschwitz senza pensare a come l’Europa abbia inabissato lì tutta la sua cultura e la sua grande storia senza più trovare la via per risalire dall’abisso». È da qui che dobbiamo ripartire. Consapevoli di una lunga tradizione, che va da Tucidide a Hegel, alla storiografia novecentesca, passando per Machiavelli, Guicciardini e gli illuministi, siamo chiamati ad accettare le «durezze della storia», uscendo dalle «nebbie della memoria» e a compiere un «balzo di tigre» nel passato, che solo ci restituirà la speranza del futuro.
Adriano Prosperi
Un tempo senza storia. La distruzione del passato.
Einaudi, pp. 121
13 euro
Legno sacro
MONICA
Una trama molto realistica racconta una vicenda crudele consumata nelle miniere della Cina del nordovest. Un libro breve, asciutto, intenso, scritto da un autore con alle spalle nove anni di lavoro in miniera. Da questo libro è stato tratto il film Blind Shaft, di Yang Li, Orso d’argento nel 2003 al Festival di Berlino.
Liu Qingbang
Legno sacro
ObarraO edizioni, pp. 160, 2012 Traduzione dal cinese di Barbara Leonesi
13 euro
Legami di sangue
MAURO
Dana e Kevin sono una giovane coppia mista – lei nera, lui bianco – di scrittori nella democratica e progressista California nell’anno del bicentenario dell’indipendenza americana; quando lei viene catapultata indietro nel tempo nel Maryland schiavista di inizio ‘800 e salva la vita a un bambino che scoprirà essere un suo lontano parente, bianco e possidente, dovrà confrontarsi con “la radicale estraneità dalla condizione di schiavo che prova chi è nato libero”, facendo i conti con i propri pregiudizi e le proprie idee preconcette.
Bella riscoperta questo romanzo di fine anni ‘70 da parte di Sur con una nuova traduzione di Veronica Raimo. Da un’autrice vincitrice di vari premi Nebula e Hugo di cui spero vedremo tradotti altri titoli.
Un po’ autofiction, un po’ romanzo storico, un po’ slave narrative. Ritorno al futuro in salsa 12 anni schiavo.
Octavia E. Butler
Legami di sangue
Sur, pp. 357 , 2020 tr. Veronica Raimo
18 euro
Amuleto celeste
LAURA
L'amuleto celeste non è un magico portafortuna, ma una mosca per la pesca. Megan Boyd è la donna che le costruisce, di colori e forme diverse, di materiali diversi, ognuna speciale. E tutte bellissime e un po’ magiche. Donna speciale, storia insolita, libro interessante.
Helen Humphreys
Amuleto celeste
Playground, pp. 207, 2020 tr. Monica Capuani
17 euro
Otto uomini
MONICA
Sono i protagonisti degli altrettanti racconti che compongono questa piccola antologia di Richard Wright (l’autore di Ragazzo negro), scritti tra il ‘37 e il ’59. Aspri, drammatici, ironici, a tratti surreali, ci fanno toccare con mano la mostruosità del razzismo, che percepiamo con tutta l’angoscia e l’impotenza da cui sono schiacciati i protagonisti.
Richard Wright
Otto uomini
Racconti, pp. 281, 2020, tr. Emanuele Giammarco ill. Diana Ejaita
18 euro
Figure nel salotto
LUDOVICA
Vi sarà senz'altro capitato nei mesi passati di sostare in salotto, seduti su una poltrona, guardando fuori dalla finestra, leggendo svogliatamente un libro o fingendo di leggerlo. Non vi sarà dunque difficile calarvi nei panni della protagonista di questo romanzo e seguire il suo sguardo fin dentro la casa di fronte. Attraversare la strada ed entrarvi. Presentarsi, finalmente, a quelle tre figure misteriose che la abitano. Farvene un'ossessione.
Pubblicato nel 1950, Figure nel salotto ci riporta agli anni Venti e all'ambiente ultraista di Buenos Aires di cui Norah Lange fece parte. Ma, azzardo solo un pochino, ci porta ancora più indietro: al brivido del doppio e alle storie di fantasmi, a quei racconti neri che un tempo leggevamo la notte di Natale.
Norah Lange
Figure nel salotto
Adelphi, pp150, 2020 tr. Ilide Carmignani
16 euro
Amatissima
MATTEO
Il libro di Toni Morrison si ispira a un fatto di cronaca avvenuto nel 1855, quando Margaret Garner, una schiava in fuga, uccise la propria figlia per evitare che venissero entrambe catturate. Ne esce un libro con un’incedere metaforico, con una forza impressionistica e poetica.
Tre sono le chiavi di lettura di questo romanzo che vinse il Premio Pulitzer nel 1988.
Il primo è storico: in tutto il libro aleggia lo spettro della schiavitù in America. Ci sono diversi richiami alle decine di milioni di africani morti durante il cosiddetto passaggio di mezzo degli schiavi dall’Africa all’America. Non è un caso che la bambina, Beloved, torni uscendo dall’acqua, ricordando tutti gli schiavi morti nelle negriere e poi buttati in mare. Associato a questo tema c’è quello dell’identità, mai del tutto negata ma neppure espressa, e quello del confine.
Tutti i personaggi sembrano vivere su una soglia, parola che richiama la seconda chiave di lettura, quella religiosa, o meglio dire della magia afroamericana. Più di una volta nel libro i protagonisti si trovano al confine tra il mondo dei vivi e quello dei morti.
Ultimo tema, ma non per importanza, è sicuramente il rapporto tra la madre, Sethe, e la figlia, Beloved. In questo caso in gioco non è solo l’affetto, ma anche l’identità: Sethe desidera una fusione totale con la figlia. Ma una schiava non ha diritto né alla sua identità, essendo trattata alla stregua di una cosa, né a possedere qualcuno attraverso la maternità.
Con un intreccio narrativo complesso, in un arco temporale frammentato e con una lingua spesso associata al mondo animale, Toni Morrison porta il lettore ad affrontare la tragedia degli africani deportati in America. Un libro molto attuale che parla di diseguaglianza e di crudeltà dell’essere umano.
Tony Morrison
Amatissima
Pickwick, pp. 406, 2013 trad. Giuseppe Natale
10,90 euro
Non dire addio ai sogni
Matteo
Un ragazzino africano palleggia sull’arenile di una spiaggia al tramonto. Potrebbe essere nel suo Senegal, oppure in una spiaggia tra le calanche marsigliesi. Immagine suggestiva, malinconica, ma anche di riscatto, che ricorda alcune foto di Pasolini mentre gioca su campi polverosi e senza erba nelle borgate romane.
Questo ragazzino è Amadou, il protagonista del nuovo romanzo di Gigi Riva, editorialista per L’Espresso. Se nel suo sorprendente L’ultimo rigore di Faruk il giornalista aveva raccontato le gesta della nazionale jugoslava ai mondiali italiani del 1990 per parlare dello scoppio della guerra nei Balcani, in questo caso il calcio è lo spunto per denunciare una nuova e contemporanea tratta degli schiavi.
Ispirato a fatti drammatici di cronaca, il libro narra la storia di falsi agenti spietati e senza scrupoli che in cambio di somme cospicue di denaro promettono alle famiglie che il proprio figlio farà fortuna in Europa grazie al calcio. Ma una volta nel vecchio continente vengono abbandonati a loro stessi.
Questo è il caso di Amadou, che dal Senegal parte per Marsiglia. Il suo sogno: giocare allo Stade Velodrome dell’Olympique. Ma, non appena sceso dall’aereo, viene presto catapultato in un incubo. Come un moderno Ulisse, il ragazzo comincia a vivere un’odissea in cui sono caduti tanti suoi coetanei. Posto ai margini della società, Amadou conoscerà criminali piccoli e grandi della malavita nelle banlieue marsigliesi ed entrerà in contatto con un mondo di immigrati rabbioso nei confronti di un paese che non dà loro alcuna possibilità di crescita e riscatto. Ma non per Amadou, che non ha perso la capacità di sognare.
Lontano dalla sua famiglia e dal suo amato Senegal, comincia un romanzo di formazione dalle tinte picaresche, ma con la possibilità di crescita ed emancipazione. Perché se non c’è posto al mondo dove l’uomo è più felice che in uno stadio di calcio, poco importa se questo sia il Velodrome oppure un campetto di terza categoria, o addirittura una spiaggia al tramonto.
Ancora una volta per Gigi Riva lo sport diventa il terreno per scandagliare l’umanità nei suoi più profondi recessi, perché, come ha detto George Bernard Shaw, il calcio è l’arte di comprimere la storia universale in novanta minuti.
Un libro toccante adatto a ragazzi e adulti.
Gigi Riva
Non dire addio ai sogni
Mondadori, pp. 217, 2020
18 euro
Finitudine
Monica
Pievani ci stupisce con un romanzo dalla trama non reale ma plausibile, che racconta di un dialogo tra Monod e Camus, al capezzale di quest’ultimo. Un confronto filosofico scientifico sulla finitezza dell’uomo e più in generale della Terra intera, che ci convince (o perlomeno ci prova) del fatto che la nostra ineluttabile finitudine non è necessariamente un male, anzi: ”La vita non ha un senso e allora, a maggior ragione, vale la pena di viverla”.
Telmo Pievani
Finitudine. Un romanzo filosofico su fragilità e libertà
Raffaello Cortina Editore, pp. 280, 2020
16 euro
Mia madre
Monica
Bello e istruttivo questo graphic novel di Li Kunwu, appena uscito con l’editore add. L’autore, già conosciuto per i suoi tre volumi autobiografici (il tempo del padre, Il tempo del partito, Il tempo del denaro), dà in questo volume il meglio di sé, tra realismo e sentimento, nel raccontare la storia di sua madre. Ambientato nella provincia dello Yunnan nella prima metà del Novecento, questo libro a fumetti ci aiuta a meglio comprendere la storia recente della Cina, vista da un’angolazione personale e soggettiva, dunque ancor più preziosa. Come preziosa e densa di contenuti è la prefazione di Giada Messetti.
Li Kunwu
Mia madre
add editore, tr. Giovanni Zucca, pp. 200, 2020
19,50 euro
IL PADRE
Matteo
Lo scrittore croato Jergovic, diventato famoso in Italia con la raccolta di racconti Le Marlboro di Sarajevo nella quale raccontava, in tono surreale, la guerra nel Balcani, ha scritto un romanzo molto intenso e diretto sulla morte del padre. Il libro comincia in modo lapidario: Mio padre è morto. In una geologia paterna, il lettore pagina dopo pagina scopre la storia di un uomo ateo, di professione medico, che ritiene che tutti gli uomini siano uguali.
Jergovic non ci propone solo un libro intimo, che racconta la distanza tra un padre e un figlio con le relative cose che si perdono e che non si possono perdonare, ma inserisce la storia del padre delle vicissitudini di una famiglia e di uno stato intero che partono dagli anni Venti e arrivano fino al 1993 in una Sarajevo dilaniata dalla guerra.
Come in una tragedia greca, in questo libro le colpe individuali diventano collettive, come quelle della madre del padre di Jergovic, Stefanija, che durante la seconda guerra mondiale era stata una collaborazionista del governo ustascia di Ante Pavelic. La morte del padre è l’occasione per lo scrittore di fare i conti con un passato mai scomparso, l’ultimo canto o testimonianza di un ramo famigliare di cui lui rimane unico erede e testimone se non altro per via sanguigna. Ne esce fuori un ritratto molto particolare, di una famiglia devastata da incomprensioni interne dovute ai tempi della storia con la esse maiuscola. Jergovic non fa sconti a niente e a nessuno, se non alla zia Mila e allo zio Bude, partigiani durante il secondo conflitto mondiale.
Lo stesso scrittore sa che per tutta la vita dovrà portare su di sé il peso della colpa, e non lo fa a cuor leggero ma nella consapevolezza che è un onere ma anche un onore poter testimoniare sul proprio corpo dissidi generati nella notte dei tempi. Perché se lui è diventato quello che è lo deve anche a queste figure ingombranti, prima fra tutte quella del padre, uomo solitario che abbandona la madre di Jergovic troppo presto per poterlo capire fino in fondo. Ma ad ogni pagina si disvela qualcosa di questa figura e ci si rende conto che in realtà non è solo un romanzo sul padre perduto, ma è un libro sul ruolo che tutti noi abbiamo nella storia. Come scrive Jergovic ad un certo punto: il contrario della responsabilità civile e collettiva non è l’innocenza collettiva. Il contrario è l’irresponsabilità.
Un libro toccante che fa riflettere e che tutti dovremmo leggere.
Miljenko Jergovic
IL PADRE
Bottega Errante Edizioni tr. di Elisa Copetti, pp.188
17,00 euro
Novantanove notti nel Lowgar
Monica
Un dodicenne afgano cresciuto negli Usa torna nel paese natale con la famiglia. Un’immersione inconsueta anche per il lettore, che come il protagonista si trova catapultato in un ambiente di cui non conosce praticamente niente e in cui vivere un’avventura insolita. Coraggiosa e affascinante l’idea di non tradurre i “realia” (nomi di oggetti, cibi, capi d’abbigliamento), del resto intraducibili: più spazio all’immaginazione. Un plauso al traduttore Norman Gobetti.
Jamil Jan Kochai
Novantanove notti nel Lowgar
Einaudi, pp. 264 tr. Norman Gobetti
19,50 euro
Cinamania
Monica
Facile ma non banale, un libro illustrato che in 8 mappe concettuali riesce a darci una buona panoramica su usi, costumi, lingua, tradizioni, attualità cinesi. Di facile consultazione, accessibile a tutti, bambini e adulti, è in grado di soddisfare più di una curiosità (risvegliandone molte altre)
Giulia Ziggiotti
Cinamania
Rizzoli, pp.224, ill.
18,90 euro
Senti le rane
MONICA
Basta coi soliti gialli: qua si sta col fiato sospeso in una vicenda centellinata dalla grande affabulazione di Paolo Colagrande
Paolo Colagrande
Senti le ranne
Nottetempo, pp. 336
16,50 euro
L'invenzione della solitudine
Matteo
Un libro intenso, intimista e autobiografico questo di Paul Auster. Diviso in due parti collegate tra loro da due temi: la memoria e la morte che si trasforma in vita e la vita che diventa morte.
Dopo quale settimana dall’inaspettata morte del padre, l’autore si ritrova nella grande casa di un uomo che non aveva mai conosciuto appieno. Proprio in questo luogo partono una serie ininterrotta di frammenti di diverse esistenze che si concatenano lungo tutto il libro: il padre, il nonno, il figlio e l’ex moglie di Auster. Non è un vero e proprio flusso di coscienza, piuttosto un puzzle di immagini, coincidenze e associazioni in cui il caso gioca strani scherzi.
L’invenzione del quotidiano è il ritratto di una famiglia nelle pieghe del tempo. Ma anche la rivincita della parola, della lingua che proprio nella solitudine si ritrova per ricollegare tutti i pezzi di questo intricato mosaico. La frase che più rappresenta il libro è questa: «Ciascun libro è un’immagine di solitudine, un oggetto concreto che si può prendere, riporre, aprire e chiudere, e le sue parole rappresentano molti mesi, se non anni, della solitudine di un individuo, sicché a ogni parola che leggiamo in un libro potremmo dire che siamo di fronte a una particella di quella solitudine». Ma proprio da questa solitudine nasce la meraviglia, che fa toccare e riesce a rappresentare il mondo intero.
Un libro che fa riflettere e tocca le corde di tutti noi, grazie anche alla splendida scrittura di Paul Auster.
Consigliatissimo.
Paul Auster
L'invenzione della solitudine
Einaudi, pp 179 tr. Massimo Bocchiola
10,50 euro
La città dei vivi
Matteo
Si potrebbero dire tante cose di questo libro. Prima di tutto, Nicola Lagioia, che scrive un romanzo ogni cinque o sei anni, è davvero una garanzia. Con questo libro continua a raccontare la mutazione antropologica dell’Italia del XXI secolo, e lo fa mettendo in scena, come aveva fatto ne La ferocia, un crollo, con il suo impercettibile rumore. Mentre nel suo ultimo libro aveva raccontato, in una Bari nera e spettrale, il crollo della famiglia Salvemini e dei suoi componenti che vivono in una luminosa gabbia di anaffettività, in una società allo stato di natura e che basa tutti i suoi rapporti sugli interessi e il denaro; in questo caso, come un moderno Truman Capote, ci racconta la morte di Luca Varani per mano di Marco Prato e Manuel Foffo in una Roma che ricorda una poesia espressionista dove l’ambiente è dominato da una massa informe e nera di corvi.
Ma, nonostante il presupposto sia un fatto di cronaca nera, Lagioia ha la capacità di prendere strade diverse dal consueto realismo, grazie a soluzione letterarie e narrative insperate e inattese.
La foto di Hayden Verry, che si staglia sul piatto anteriore, è un monito per il lettore: la figura sfuocata di un ragazzo, ad indicare il suo lato tenebroso che fatica a trovare la propria identità e il proprio posto nel mondo. Quest’immagine accomuna i due omicidi: Prato e Foffo, ragazzi non ancora diventati uomini che si troveranno a crescere dopo un brutale omicidio.
La città dei vivi si avvicina all’idea greca di tragico: i protagonisti vivono e si muovono nell’isolamento, si misurano da soli con il proprio destino. Anche quando creano dei rapporti interpersonali, vivono fino in fondo il loro particolare fato. quello che Lagioia vuole dire al lettore è attraente e nello stesso tempo terrificante: tutto è perduto, tutto è tragedia e la stessa natura, incarnata nelle strade buie di Roma, si sta ribellando a questo stato di cose e decide di morire.
Con una lingua al limite della perfezione, che dà il senso di come tutto sia ormai morte, Nicola Lagioia ci porta dentro il caso di cronaca più violento degli ultimi anni, indagando temi filosofici e altamente complessi come la natura umana, la responsabilità e la colpa.
Un libro assolutamente da leggere.
Nicola Lagioia
La città dei vivi
Einaudi, pagg. 459
22 euro
TOGLIATTI, La fabbrica della Fiat
Monica
21 agosto 1964: muore Palmiro Togliatti. 28 agosto 1964: la città di Stavropol-sul-Volga, mille chilometri a sud-est di Mosca, viene ribattezzata "Togliatti". 22 aprile 1970: nel giorno del centesimo compleanno di Lenin, dall'AutoVAZ di Togliatti esce la prima automobile Zhigulì; nel 1976 gli esemplari prodotti saranno tre milioni: il grande balzo in avanti della motorizzazione sovietica. In mezzo, tra il 1966 e il 1970, c'è un'epopea italiana: perché a costruire il gigantesco impianto produttivo di Togliatti - una fabbrica grande il doppio di Mirafiori, in una città nata insieme alla fabbrica, tra inimmaginabili difficoltà e fatiche - furono tecnici e operai della Fiat, la Fiat di Vittorio Valletta e di Gianni Agnelli. Cinquant'anni dopo, Claudio Giunta e Giovanna Silva hanno viaggiato fra Torino e Togliatti per raccontare quella storia raccogliendo memorie familiari, ora comiche ora drammatiche, e ascoltando le voci - italiane e russe - di coloro che, giovani allora, parteciparono all'impresa. (dalla quarta di copertina)
Un bel libro poco ingombrante ma corposo, nel quale in poche pagine Claudio Giunta con inconfondibile piglio giuntesco rievoca l’impresa della Fiat nell’allora Unione Sovietica. Letta oggi, la vicenda ha dei contorni quasi fantascientifici, tra passaggi di materiali, progetti, personale, energie, entusiasmi. Una parabola, quella descritta, che dopo un esordio vivace e felicemente controcorrente rispetto all’atmosfera politica del tempo, si conclude in modo triste e vagamente melanconico.
Un saggio (corredato da una settantina di efficacissime foto, opera di Giovanna Silva) in cui si parla di Italia degli anni sessanta e settanta, della Fiat, dell’Unione Sovietica, dell’industria italiana, di noi che oggi siamo adulti e che allora ci illudevamo d’esser parte di una nazione che cresceva.
Claudio Giunta e Giovanna Silva
TOGLIATTI, La fabbrica della Fiat
Humboldt Books, pagg 136
24 euro
Il levitatore
LUDOVICA
Un libro leggero, ironico, pieno di stranezze, di animali e di personaggi da favola. Un invito a "sgravitarsi", a mettere da parte la pesantezza e a lasciarsi andare alla levità.
Adrián Bravi
Il levitatore
Quodlibet, pp. 208
15 euro
Gottland
LUDOVICA
Se siete tra i tanti che hanno amato Anime baltiche, non dovreste rinunciare a leggere questo libro.
Ci troverete sedici micronarrazioni, storie realmente accadute tra (e oltre) i confini dell'ex Cecoslovacchia, raccontate con quel tono sferzante, e piacevolissimo, tipico dell'umorismo boemo, da cui l'autore, polacco d'origine, sembra sia rimasto stregato. E noi con lui.
Mariusz Szczygieł
Gottland
Nottetempo tr. di Marzena Borejczuk pp. 320
19 euro
La moglie del colonnello
LUDOVICA
Secondo libro di Rosa Liksom per Iberborea, La moglie del colonnello si ispira alla biografia di una nota scrittrice finlandese. Un lungo monologo ci racconta la sorte spietata che segna la sua vita, nonostante il desiderio, tardivo e disperatamente ambiguo, di cambiarla.
Rosa Liksom
La moglie del colonnello
Iperborea, tr.di Delfina Sessa, pp. 224
16,50 euro
CHE DISPIACERE
Monica
Chi già ama Paolo Nori si divertirà come sempre a leggere un suo libro. Questo poi è un giallo, così magari affascina anche chi è appassionato di gialli e non conosce ancora Paolo Nori. E non sa cosa si è perso fino ad ora.
Paolo Nori
Che dispiacere. Un'indagine su Bernardo Bigazzi
Salani Editore, pp. 256
16,00
RED MIRROR
Monica
Per capire che la Cina non è più la fabbrica del mondo bensì la nazione dove si investe maggiormente per sviluppare nuove tecnologie (intelligenza artificiale, Internet delle cose, smart city e molto altro). Che ci piaccia o no, “lì, chi progetta il nostro mondi di domani è già all’opera” (dalla quarta di copertina). Meglio non farci cogliere impreparati.
Simone Pieranni
Red mirror. Il nostro futuro si scrive in Cina
Editori Laterza, pp. 168
16,00 euro
A PROPOSITO DI NIENTE
Monica
Era ora che si desse voce al presunto colpevole, che potesse difendersi dalle infamanti e inverosimili accuse, a dare la propria versione dei fatti, la sua verità. Un saggio scorrevole, pieno di aneddoti, informazioni, pettegolezzi, curiosità, note di costume. Istruttivo.
Woody Allen
A proposito di niente
La nave di Teseo, pp. 400
20,00 euro
i consigli dei librari per bambini e ragazzi
*LE COSE CHE PASSANO di Beatrice Alemagna, Topipittori, pagg. 40
Ci sono che che passano, altre che restano. Un albo illustrato di piccolo formato che incanta anche i lettori più smaliziati (adulti compresi).
età di lettura: dai 3 anni
*GROLEFANTE & TOPOLINO. CHE AMICIZIA BESTIALE! di Pierre Delye Ronan Badel, Terre di Mezzo editore, pp. 48
libro a fumetti età di lettura: 6 anni
*RUGGITI di Daniela Carucci con illustrazioni di Giulia Torelli, Sinnos,
pp. 128
libro avventuroso e divertente età di lettura: 9 anni
*FUGEES FOOTBALL CLUB di Igor De Amicis, Paola Luciani, Einaudi Ragazzi (di OGGI), pp. 160
un libro per chi ha voglia di mettersi in gioco età di lettura: 11 anni
Spillover
MONICA
Un tema così attuale da essere scottante affascina, ma la mole del libro (sono circa 500 pagine) e l’idea che possa essere incomprensibile a un non addetto ai lavori spaventa. Invece già dalle prime pagine David Quammen, che oltre a una profondissima preparazione in campo biologico e naturalistico ha una formazione letteraria, ci accompagna con chiarezza, lucidità, a volte anche con un pizzico di humor lungo i tortuosi ma affascinantissimi meandri delle zoonosi, delle malattie che passano da animale a uomo. E ci aiuta, in questo saggio di qualche anno fa ma diventato comprensibilmente di grande attualità, a farci un’idea di certi meccanismi della natura e a interrogarci su quali siano le nostre effettive responsabilità nella genesi delle pandemie.
David Quammen
Spillover
pp. 527, tr. di Luigi Civalleri
14 euro
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Olive, ancora lei
LAURA
Come ritrovare un vecchio amico o mettersi un golf o un paio di scarpe che usi da tanto tempo. Poca sorpresa ma molto piacere.
Elizabeth Strout
Olive,ancora lei
Einaudi pp. 272, tr. di Susanna Basso
€19.50
Pyongyang blues
MONICA
Divertente e spiazzante, oltre che molto istruttivo. A metà tra il saggio politico e il diario quasi intimo di un cervello in fuga nel posto più improbabile del mondo
Carla Vitantonio
Pyongyang blues
add editore, pp. 288
18 euro
Prima di noi
MATTEO
Grazie alla famiglia Sartori possiamo rivivere la storia d’Italia dall’inizio del Novecento fino ai giorni nostri. Un libro veramente bello
Giorgio Fontana
Prima di noi
Sellerio, pp 896
€22,00
Come l’acqua che scorre. Tre racconti
LUDOVICA
Consiglio di un amico, uno dei libri che ho più amato in questi anni. Aspettatevi da questi tre racconti tutto quanto avete amato nelle opere maggiori dell’autrice (innegabilmente una delle più grandi narratrici di sempre)!
Marguerite Yourcenar
Come l’acqua che scorre. Tre racconti
Einaudi, traduzione di Maria Caroniapp. 232
€11,50
Roseanna
MAURO
Per Wahlöö e Maj Sjöwall (scomparsa da qualche giorno) non sono stati solamente tra i più alti esponenti del cosiddetto giallo “procedurale” ma hanno, con i loro libri sull’ispettore Martin Beck, di cui questo è il primo, anticipato il nouveau polar francese. Mediante il loro sguardo politicizzato e critico verso la società individualista e discriminate hanno costruito una galleria di personaggi umanissimi tanto che qualcuno ha parlato di commedia umana alla Balzac in chiave poliziesca.
Per Wahlöö e Maj Sjöwall
Roseanna
Sellerio, traduzione di Renato Zatti, pp 386
11 euro
Fair Play
LAURA
Da un’autrice molto brava a descrivere la quotidianità, un tratto di vita di due donne, artiste amiche compagne.
Tove Jansson
Fair Play
Iperborea, pp. 160, traduzione di Katia De Marco
15 euro
Wolf Hall
MAURO
Questo libro, primo di una trilogia che narra le vicende di Thomas Cromwell, segretario di stato alla corte di Enrico VIII, è un appassionante romanzo storico scritto con incredibile talento da Hilary Mantel, (vincitrice di ben due Man Booker Prize). Affresco dell’epoca Tudor vivido e appassionante, con personaggi tridimensionali che vi terranno incollati alla lettura, la storia di questo self-made man del Rinascimento è un congegno di rara perfezione strutturale.
Hilary Mantel
Wolf Hall
Fazi editore, pp. 779, Tr. Giussepina Oneto
16,50 euro
Cose che si portano in viaggio
MATTEO
Seguire la storia di Katia, nata nella Berlino Est del dopoguerra da cui fugge clandestinamente nel 1971, significa parlare di concetti labili come identità e radici. E al lettore resta da rispondere ad una domanda che assilla la nostra protagonista: cosa portare in un viaggio da cui non c’è ritorno?
Aroa Moreno Duran
Cose che si portano in viaggio
Guanda, pp. 169
16 euro
Amuleto
LUDOVICA
Vibrante, sporca, arrabbiata, impaurita, libera. È la voce di Auxilio Lacouture, indimenticabile protagonista di questo piccolo capolavoro consacrato alla memoria della rivolta studentesca messicana.
Roberto Bolaño
Amuleto
Adelphi, pp. 222, tr. Ilide Carmignani
16 euro
Nella testa del dragone
MONICA
Un saggio agile e informato per capire come funziona e su cosa si basa il sistema cinese.
Giada Messetti
Nella testa del dragone
Mondadori, pp. 192
euro 18,00
Friday Black
MAURO
Non è né Kurt Vonnegut né George Saunders ma ci assomiglia molto. Nana Kwame Adjei-Brenyah (newyorkese di origini ghanesi) e i suoi racconti sono un stilettata al cuore dell’America razzista, consumista e irresponsabile dei vari Trump e Bannon. Dodici racconti distopici che, anche meglio di serie come Black Mirror, riescono a parlare del nostro presente.
Nana Kwame Adjei-Brenyah
Friday Black
edizioni SUR, tr. Martina Testa, pp. 200
euro 16,50
Il cinema è mito. Vita e film di Sergio Leone
MATTEO
E se durante queste sere che siamo obbligati a stare in casa riguardassimo un capolavoro come C’era una volta in America? Magari leggendo la bella biografia che Garofalo fa di Sergio Leone? La risposta credo sia molto semplice. Assolutamente sì.
Marcello Garofalo
Il cinema è mito. Vita e film di Sergio Leone
minimum fax, pp. 537
euro 20,00
I sonnambuli
LUDOVICA
Una volta in un libro ho letto: «Una generazione che era ancora andata a scuola col tram a cavalli, si trovava, sotto il cielo aperto, in un paesaggio in cui nulla era rimasto immutato fuorché le nuvole, e sotto di esse (...) il minuto e fragile corpo dell’uomo.» Broch appartiene a quella generazione e I sonnambuli, che esce nel 1931, parla esattamente di questo.
Hermann Broch
I sonnambuli
Adelphi, tr. Ada Vigliani, pp. 230
euro 20,00
Perché il bambino cuoce nella polenta
LAURA
Un diario di una ragazzina figlia di artisti circensi pieno di sogni e fantasia, che sono però una fuga da una realtà difficile e pesante
Aglaja Veteranyi
Perché il bambino cuoce nella polenta
Keller, tr. Emanuela Cavallaro, pp. 208
euro 15,50
DA NON PERDERE
i consigli di tutti i librai dell'Incrocio
MONICA:
Paolo Nori, I russi sono matti, Corso sintetico di letteratura russa 1820-1991, UTET, pp184, €15,00
"agile, commovente, divertente (come l’autore)"
Paolo Colagrande, La vita dispari, Einaudi, pp 281,€19,50
"grande ritmo e bella scrittura per una storia amara e divertente)"
Lao She, Il ragazzo del risciò, Mondadori, pp 315, €14,00
"imperdibile classico del novecento cinese"
LAURA:
Eka Kurniawan, La bellezza è una ferita, Marsilio, pp 489, €20,00
"realtà e impossibile si alternano nella storia di una cittadina indonesiana"
Mariana Leky, Quel che si vede da qui, Keller, pp 336, €18,00
"se Selma sogna un okapi, qualcuno morirà. Non un horror, ma una storia di vita quotidiana di personaggi non ordinari"
Wendy Doniger, L'anello della verità, Adelphi, pp 397, €38,00
"mi piace, ma non so perché ..."
MATTEO:
Jared Diamond, Crisi. Come rinascono le nazioni, Einaudi, pp 488, €30,00
"ancora una volta Jared Diamond ha scritto un lbro piacevole e mai banale, che cambierà il modo del lettore di capire ciò che fa nascere e morire le civiltà. Da leggere"
Georgi Gospodinov, Fisica della malinconia, Voland, pp 335, €15,00
"un romanzo denso, commovente, onirico e surreale. Ricorda un minotauro nel labirinto"
Guillaume Duprat, Nella mente dei mostri, L'ippocampo, €19,90
"dodici storie di mostri narrate dai mostri stessi. E se anche lo yeti, Cerbero e il Ciclope in fondo avessero paura? Un libro davvero divertente e con una visuale piuttosto insolita"
LUDOVICA:
Ali Smith, Inverno, SUR, pp 280, €17,50
"una vigilia di Natale meravigliosamente fuori dai canoni"
Adriano Sofri, Il martire fascista, Sellerio, pp 248, €15,00
"Sofri torna a parlare di Piazza Fontana, facendo un giro lungo (e illuminante) che passa attraverso il confine orientale e arriva fino alla Sicilia"
Mariusz Szczygieł, Reality, Nottetempo, pp 156, €8,00
"un libro intimo e brillante da regalare a tutte le vostre amiche"
MAURO:
Joann Sfar e Lewis Tron, La fortezza, Bao publishing, pp 292, €25,00
"la più divertente e intelligente saga fantasy che leggerete nella vostra vita"
Simon Reynolds, Post Punk 1978-1984, pp 776, €25,00
"praticamente la bibbia di ogni appassionato di New wave da leggere e ascoltare"
Chaim Grade, La moglie del rabbino, Giuntina, pp 213, €18,00
"un piccolo gioiello. Perele, la moglie del rabbino, è un personaggio che non dimenticherete"
La nostalgia di un sogno
Matteo
Sono passati undici anni dall’ultimo libro di Dunja Badnjević, L’isola nuda. L’opera metteva insieme memorie e romanzo e raccontava la storia di una generazione segnata dalle drammatiche vicende dell’ex Jugoslavia. Al centro, il lager di Goli Otok, dove era stato rinchiuso per alcuni anni il padre.
Se in quel caso l’autrice rompeva l’incantesimo del silenzio, della memoria negata, del senso di colpa, e intraprendeva un lungo viaggio alla ricerca del padre morto più di vent’anni prima, anche in questo caso utilizza il memoir ma per parlare di lei, della sua vita e soprattutto delle occasioni mancate e perdute.
La sua vita è segnata da una doppia identità: quella jugoslava e quella italiana. Non è un caso che i primi due capitoli siano dedicati a due avvenimenti che hanno segnato in profondità la sua esistenza. Il primo è dedicato alla morte di Enrico Berlinguer avvenuta l’11 giugno del 1984, mentre il secondo alla dipartita il 4 maggio del 1980 di Tito. Due morti che hanno significato la fine di due sogni per la Badnjević. Da un lato la fine del Partito Comunista Italiano, lei che aveva la tessera del partito e per anni aveva lavorato come traduttrice e editor in Editori Riuniti, la casa editrice con sede vicino a Botteghe Oscure. Dall’altro il crollo dell’ideale di fratellanza e unità della Repubblica Federativa Popolare di Jugoslavia che indicava il sentimento che univa i popoli della Federazione, lo spirito laico, interetnico e tollerante sulla base del quale, secondo Tito, andava rifondata la Jugoslavia. Ideale che Dunja, da abitante di quella Sarajevo multietnica e promiscua, non poteva non abbracciare.
Poi tutto il romanzo è un susseguirsi nostalgico di questi due sogni spezzati. Sì perché questo memoir è una dichiarazione d’amore per due mondi che non ci sono più e che l’autrice guarda con profonda melanconia. La nostalgia infatti non è solo dolore del ritorno, ma anche desiderio come nel caso di Ulisse e come Odisseo Dunja cerca di fare un viaggio a ritroso che è un susseguirsi di ricordi prima della sua infanzia in Jugoslavia e poi in un’Italia in fase di costruzione identitaria e politica che aveva votato i referendum sull’aborto e il divorzio.
Con uno stile asciutto, dolce e mai banale la Badnjević accompagna dunque il lettore per mano e lo porta dentro un mondo che non esiste più ma di cui si sente terribilmente la mancanza. Bellissimi i capitoli dedicati alla casa editrice Editori Riuniti, diretta da Roberto Bronchio, che nonostante fosse legata al Partito Comunista manteneva una sua indipendenza e libertà encomiabili. Struggenti le pagine in cui ci si avvia verso il declino e poi la chiusura di questa casa editrice che negli anni aveva pubblicato alcuni dei principali narratori contemporanei, come Jorge Amado o per la letteratura per ragazzi, come Gianni Rodati.
Ma la voce si fa ancora più triste quando Dunja comincia a parlare della guerra fratricida in Jugoslavia durante gli anni Novanta che mette la parola fine agli ideali di convivenza e fratellanza professati da Tito. Indimenticabile la scena, che ricorda molto La grande Bellezza di Sorrentino, di una cena in una casa della Roma bene durante la quale l’autrice sente parlare un suo connazionale di serbi, croati, sloveni e bosniaci. Un colpo al cuore per lei che si sentiva e si sente ancora solo jugoslava e soprattutto cittadina del mondo. Ma a lei, come a noi mentre leggiamo questo libro, non ci hanno messo nell’acqua fredda come le rane e poi, mentre la portavano a ebollizione, ci siamo abituati gradualmente. A noi è come se ci avessero buttato direttamente nell’acqua bollente.
E’ la fine di un sogno. Non c’è diritto di replica.
Dunja Badnjević
Come le rane nell'acqua bollente
Bourdeaux, pagg. 159
€ 14,00
Uomini che hanno paura delle donne
Mauro
Una cosa che amo della fantascienza, e della letteratura fantastica in generale, è la capacità che ha di denunciare le storture del presente tramite la possibilità di ribaltare i punti di vista e le categorie sociali a cui siamo abituati e che diamo per scontate.
Di successo è l’esempio de Il racconto dell’ancella di Margaret Atwood dove, per denunciare un certo machismo reaganiano (il libro è del 1985), si racconta la storia di una mondo in cui le donne sono sottomesse agli uomini in uno stato di polizia ultraortodosso cristiano.
Ed è proprio alla Atwood che guarda l’autrice di questo coinvolgente romanzo distopico.
Ragazze elettriche, edito dalla sempre meritevole Nottetempo di Milano, è il classico romanzo “What if”: quelli il cui plot sviluppa una domanda di partenza.
E la domanda potrebbe essere più o meno questa: Che cosa accadrebbe se gli uomini avessero paura delle donne?
Il libro inizia quando, improvvisamente, le adolescenti di tutto il mondo sviluppano un incredibile potere (e The power è il titolo originale): riescono a mandare scariche elettriche dalle mani, scariche elettriche che possono arrivare a ferire o addirittura a uccidere; facendo precipitare gli uomini in un pericoloso stato di subalternità.
Seguiamo quindi le vicende, alternando il punto di vista, di quattro personaggi: c’è Roxy, figlia di un boss della malavita londinese, che userà il suo potere per vendicarsi e per sostituirsi al padre; c’è Allie, una ragazza americana maltrattata, che si reinventerà guida spirituale col nome di madre Eve; c’è Tunde, giornalista nigeriano, che dapprima segue con favore le rivoluzioni femminili (bello quando nei paesi arabi donne col hijab scendono in strada sbaragliando polizie ed eserciti), salvo poi pagare il prezzo del suo essere del sesso sbagliato; infine c’è Margot, politicante senza scrupoli di mezz’età, e la sua timida figlia Jocelyn, incapace di usare il potere (che sembrano tanto Hillary e Chelsea Clinton).
Questo ribaltamento dei ruoli non porta a un miglioramento sociale; sembra che il patriarcato venga di fatto sostituito da un matriarcato altrettanto brutale e ingiusto, e quindi tutti cattivi e amen.
Ma questa è la chiave di lettura più semplicistica e superficiale.
A tal proposito mentre cercavo notizie su questo romanzo mi sono imbattuto nella classica recensione scritta da chi non ha letto il libro, una recensione che si intitolava: “Dite ad Asia Argento che le donne non renderanno il mondo migliore” (taccio il nome del giornale, ma la trovate sul sito della Nottetempo). Niente di più fuorviante. Lo scopo dell’autrice non è quello di denunciare tout court il potere, né tantomeno un assist contro chi vuole derubricare i femminicidi a violenza comune.
Non è questo.
Il ribaltamento dei ruoli non serve a denunciare le violenze di un mondo immaginario, ma le violenze del mondo reale; è una strategia narrativa per coinvolgerci emotivamente. Leggetevi la parte ambientata, non casualmente, in Moldavia dove un gruppo di donne dà la caccia e poi violenta e uccide un gruppo di uomini indifesi, sembra una scena delle Baccanti ma è la realtà: è il Ruanda, è la Jugoslavia, è Ciudad Juárez.
Solo che per una volta, e solo nella finzione, le vittime siamo noi maschi.
Naomi Alderman
Ragazze elettriche
Nottetempo, pp.446, trad. di Silvia Bre
20 euro
La forza della memoria, la tempesta dell’oblio
Matteo
Siamo davanti al libro più religioso e storico dello scrittore israeliano David Grossman, che con quest’opera torna alle vette raggiunte con Vedi alla voce amore, anche se con un pizzico di realismo magico in meno. Ma andiamo con ordine per non disorientare il futuro lettore.
Il tema religioso è presente grazie a due fattori. Il primo è il ruolo della donna, incontrastata protagonista del libro. Secondo la tradizione ebraica, l’appartenenza viene trasmessa per via matrilineare. Quindi è la donna la figura chiave in grado di garantire continuità e senso al popolo ebraico nel corso della storia. Le tre donne, o forse meglio definirle eroine, del libro non fanno eccezione. Vera, la nonna, Nina, la figlia e Ghili, la nipote, sono il motore della storia. Tutto si incentra sulle loro figure e sulle loro personalità: Vera una donna dura, forte e coraggiosa, Nina più debole e meno carismatica, la figlia la definisce “artista della vita” perché persona dall’affettività fasulla, estremamente povera sotto il profilo emotivo, che finge di provare affetto e che abbandona lei appena nata e il padre Rafi, sempre innamorato di lei, e infine Ghili, voce narrante del romanzo, che ha il compito di riannodare i fili delle altre due esistenze.
Ciò che le lega è qualcosa di profondo e indissolubile. Ed ecco il secondo tema religioso: quello del legame, che ci riporta al sacrificio di Isacco. Dio mette alla prova Abramo chiedendogli il sacrificio del figlio per mettere alla prova il suo rapporto con il divino e la sua obbedienza. Tutto il romanzo è incentrato proprio su questo filo sottile che collega la vita delle tre donne. Un legame che però ha saltato una generazione: Vera ha sacrificato la figlia Nina e tocca proprio a Ghili, anch’essa abbandonata dalla madre, riallacciare questo rapporto che ha messo in crisi l’intera famiglia e che potrebbe segnare come una scure anche la generazione futura.
C’è solo un posto dove sarà possibile rimettere assieme i tasselli di questa vicenda, arrivando così alla parte storica del libro: Goli Otok, una piccola isola rocciosa battuta dalla bora e quasi priva di vegetazione, diventata tristemente famosa dopo la seconda guerra mondiale per essere stata trasformata in un campo di concentramento destinato ad ospitare gli oppositori al regime di Tito. Vera, personaggio romanzesco ispirato alla storia vera di Eva Panic Nahir, è stata deportata su quest’isola per quasi tre anni lasciando la figlia in balia di se stessa sulle strade jugoslave. È proprio in questo luogo che avviene il taglio del cordone ombelicale tra madre e figlia e sarà proprio su quest’isola dimenticata da Dio che la nipote dovrà ricongiungerlo. Come nel caso di Auschwitz per Vedi alla voce amore, l’isola Goli Otok non solo diventa il simbolo di una situazione di profonda disumanità dove è estremamente difficile mantenere una parvenza di umanità, ma anche punto nevralgico per la storia a venire di un intero gruppo famigliare, legato in modo indissolubile all’orrore e al trauma del posto, ma anche luogo di redenzione e catarsi.
Grossman ci offre una vera e propria lezione di metodo storiografico: parla del dovere della memoria, dell’importanza di invocarlo contro la tentazione di dimenticare i periodi bui della storia individuale e collettiva. Ma ci dice anche di come i nostri obblighi nei confronti del passato non siano tutti di memoria. Non è importante anche saper dimenticare, aprendosi così all’esperienza del perdono? Esiste una memoria felice, ma anche un oblio felice?
Alla fine però l’ultima parola spetta sempre e comunque alla letteratura, perché come dice Vera ad un certo punto del romanzo: “Ognuno ha unico turno per giocare”.
David Grossman
La vita gioca con me
Mondadori, pagg. 293, trad. di Alessandra Shomroni
€ 21,00
Qualsiasi persona di cultura, non è vero?, sa chi è il professor Freud!
Ludovica
Quando sbarca a New York nel 1941, è in viaggio da più di tre mesi, ha 58 anni, è sola, per poco sopravvissuta al colera, ha con sé un solo bagaglio. Parla quattro lingue, tra cui l’inglese, ma è senza nazionalità; è vedova, ma al momento di dichiarare il suo nome, dà quello da sposata: Ida Adler. Sul registro dell’ufficio immigrazione il medico, che la visita con routinaria negligenza, scriverà che è in salute e stabile mentalmente, mentre qualche altro impiegato si occuperà di compilare il resto e di dirle «Benvenuta in America».
Si stima che furono più di 80.000 gli ebrei in fuga dall’Europa che immigrarono negli Stati Uniti durante la Seconda guerra mondiale, e di questi meno di un terzo era in possesso di un visto di ingresso. L’America non si fece carico di loro, almeno non da subito, né fu capace di offrire loro granché. In molti casi si trattava, né più né meno, di un vivere assai precario, il cui significato ben si traduceva con un generico “ce la caviamo”, che permetteva di omettere le nefandezze peggiori e di passare ad altri argomenti.
Dopo la fine della guerra le cose cambiarono in meglio. Ciò fu possibile perché ai sostenitori della nuova politica espansionistica americana questi esuli ebrei non dispiacevano affatto: erano persone colte, per lo più agiate, professionisti stimati nel vecchio continente, di famiglie altoborghesi e, cosa che non fu immediatamente chiara, intenzionati a rimanere. Anche Ida apparteneva a una di queste famiglie.
Ma chi era Ida Adler? Qualcosa di più scopriamo rivelando il suo nome da ragazza: Bauer. Forse qualcuno ricorda Otto Bauer, il fratello di Ida, noto alle cronache per essere stato uno degli esponenti di punta della Socialdemocrazia austriaca. Perciò Ida ora è Ida Bauer. Non siamo più a New York, ma a Merano, lei è una ragazzina di quasi 12 anni, che mal sopporta il clima di silenzi e di segreti che serpeggia nella sua famiglia, a tal punto da decidere di tapparsi la bocca ella stessa, diventando completamente afona. Non che fosse una decisione apertamente dichiarata, ma piuttosto quello che oggi non esiteremmo a considerare una scelta inconscia.
E qui dobbiamo rivelare un altro particolare di questa storia. Otto Bauer non fu l’unico membro della famiglia ad avere pubblica notorietà, la stessa toccò in sorte anche a Ida, che se la guadagnò in modo del tutto diverso: non sono in pochi, infatti, a conoscerla come Dora, uno dei più celebri e più dibattuti casi di Freud. Lasciamo sullo sfondo questo dibattito (che riguarda i successi e gli insuccessi della psicoanalisi) e concentriamoci sull’immagine di questa ragazza di 18 anni che tutti i giorni dal lunedì al venerdì, per un anno, fa un breve tragitto a piedi che la conduce dall’abitazione viennese, dove ancora vive con i genitori, alla casa del dottor Freud, in Berggasse al 19, si stende sul lettino e inizia a parlare. Ce n’è abbastanza per scrivere un romanzo.
Ora sappiamo non poche cose sull’identità di questa donna, il resto lo lascio alle pagine del libro nel quale la nipote, Katharina Adler, ricostruisce la vita della sua bisnonna a partire da memorie private e da documenti d’archivio. Non leggetelo se siete in cerca di una nuova eroina in gonnella, di una bambina ribelle o di un modello di virtù femminista. Ida è il ritratto di una donna, che ha avuto la fortuna e la sventura di vivere sul crinale della storia e che – io credo, per educazione, ancor prima che per carattere – è stata tra quelle che hanno saputo dire sì alla vita.
Katharina Adler
Ida
Sellerio, pagg 552, trad. di Matteo Galli
€ 15
NOVELLE SENZA TEMPO
Monica
In una traduzione davvero mirabile (brava Lucia Regola!) è uscito in questi giorni un libro di Yan Lianke, non certo la sua fatica più recente ma solo l’ultimo tradotto in Italia. È una piccola raccolta di due novelle lunghe o romanzi brevi che dir si voglia, una misura che trovo molto congeniale per gli autori cinesi, nella quale danno il meglio di sé. Nel primo, Gli anni, i mesi, i giorni, che dà il titolo alla raccolta e scritto nel ’97, un vecchio rimasto solo in una regione arsa dal sole in una stagione di estrema siccità mette in campo ogni strategia umana e sovrumana per sopravvivere, anzi per poter dar modo di sopravvivere a una piantina di mais che ha seminato e curato, fino a nutrirla col suo stesso corpo. La storia è affascinante e il tono, apparentemente piano, ci trascina tra picchi di desolazione e vette di speranza. Ostinata resilienza cinese (o semplicemente umana?) descritta con una lingua che, tra abbondante ma mai stucchevole uso di sinestesie (“il rumore che la luce produceva gocciolando giù dalle gronde dei tetti”, o ancora “il bisbiglio notturno della crescita della piantina si era tramutato in un suono rauco e sordo”) ci restituisce un racconto vivido capace di tenerci fino alla fine con il fiato sospeso, in un universo che non fa differenze tra uomini, animali e piante, attribuendo a ciascuna delle tre categorie un medesimo status di esseri senzienti.
Nella seconda parte, Canto celeste dei Monti Balou, del 2001, siamo invece catapultati in una famiglia particolarmente disgraziata, dove una coppia di contadini ha generato quattro figli gravemente ritardati. Anche qui il tema dominante è lo stoicismo mai compiaciuto, mai consapevole, la capacità insomma di affrontare umane e disumane disgrazie semplicemente perché capitano, in un crescendo di misure e iniziative ai limiti del grottesco, dove vivi e morti convivono e si aiutano vicendevolmente.
Due novelle di ambientazione datata e campagnola, un po’ diverse dalle ultime tendenze a raccontare vicende più urbane. Fuori dal tempo e dallo spazio, perciò forse più durature.
Yan Lianke
Gli anni, i mesi, i giorni
Nottetempo, pagg 266, trad. di Lucia Regola
€18
“Perché quando c’era Lui ….”; “Anche no, grazie”
Matteo
«Ripetete una bugia cento, mille, un milione di volte, e diventerà una verità», sembra che così dicesse il ministro della Propaganda del Nazionalsocialismo Joseph Goebbels quando spiegava come rendere efficace un’informazione totalitaria. A me piacciono molto di più le parole del filosofo Harry Frankfurt che già nel 1986, poco dopo il disastro nucleare di Chernobyl, per raccontare la deriva della nostra società scriveva: «Uno dei tratti salienti della nostra cultura è la quantità di stronzate in circolazione. Tutti lo sanno. Ciascuno di noi dà il proprio contributo. Tendiamo però a dare per scontata questa situazione. Gran parte delle persone confidano nella propria capacità di riconoscere le stronzate e di evitare di farsi fregare. Così il fenomeno non ha attirato molto interesse, né ha suscitato indagini approfondite. Di conseguenza, non abbiamo una chiara consapevolezza di cosa sono le stronzate, del perché ce ne siano tante in giro, o di quale funzione svolgono». In questo mondo ipersocializzato e iperconnesso bisogna distinguere il semplice mentire dal dire bullshits, ossia stronzate. Mentre un bugiardo dice in modo deliberato il falso, conoscendo cioè la verità, chi dice stronzate è semplicemente disinteressato alla verità. E’ quello che succede ai tanti “amanti da tastiera” che ogni giorno si connettono e fanno a gara a chi le spara più grosse.
Francesco Filippi, storico e presidente dell’Associazione di Promozione Sociale Deina che sviluppa un uso consapevole e appassionato della storia e delle memorie, cerca di smascherare questo fenomeno di comunicazione opinabile con il suo provocatorio libro Mussolini ha fatto anche cose buone, edito da Bollati Boringhieri. Lo fa rivelando le innumerevoli baggianate su Mussolini e il fascismo che si aggirano tra i vari siti, blog, social network e social media. Queste bugie vengono dette per lo più da quelli che l’Oxford Dictionary ha definito alt-right, cioè gruppi ideologici, con idee conservatrici o reazionarie, che rifiutano la politica tradizionale e utilizzano la rete per diffondere informazioni quantomeno controverse.
Ecco alcuni esempi, pochi ma utili, per chi decidesse di fare un breve giro nel labirinto del cyberspazio: «Mussolini ci ha dato le pensioni», «Quando c’era il duce la crisi era sparita e tutti stavano bene, c’era pulizia, ordine, e la gente aveva anche smesso di scioperare», «E’ stato il primo che ha pensato davvero alle donne!». Oppure curiosità del tipo: «Quando c’era Lui i treni arrivavano in orario», «Quando c’era Lui i ministri giravano in bicicletta e senza scorta» e «Mussolini impose uguali diritti per uomini e animali». L’intento di queste persone, lo spiega bene Filippi, è quello di mettere in netta antitesi i politici corrotti e mariuoli di questa Seconda Repubblica con Mussolini, fiero e incorruttibile condottiero della politica italiana. Il libro diventa così una vera e propria cassetta degli attrezzi per liberarsi da false convinzioni sul fascismo e per sviluppare un pensiero critico che vada al di là delle notizie roboanti utili solo ad impressionare un pubblico a volte troppo suggestionabile.
Il pamphlet di Filippi dovrebbe diventare libro di testo obbligatorio nelle scuole. Perché anche se è vero che molto probabilmente il fascismo non potrà mai più riapparire, perché l’attuale sistema socio-politico ha i giusti anticorpi per proteggersi da una deriva totalitaria, è altresì vero che è meglio non rischiare e provare ad educare i giovani a valori inneggianti la verità storica, la critica delle fonti e l’importanza della memoria, troppo spesso labile nel nostro bel Paese. Che male c’è del resto a voler crescere cittadini consapevoli e responsabili? Credo che questa necessità di consapevolezza e responsabilità civile siano fondamentali in un momento storico in cui la frammentazione delle notizie, dovuta all’espansione di internet e della rete, ha creato un mondo atomizzato in cui si trovano voci e pettegolezzi con una velocità disarmante.
In che modo, dunque, è possibile non far più riecheggiare quello stonato incipit: “Quando c’era Lui…”? Filippi non ha dubbi. L’unico metodo è quello di provare per una volta a fare una cosa davvero dissidente e rivoluzionaria: dire la verità e far trionfare così la realtà sulla verosimiglianza. Compito assai arduo visti i tempi ma, nonostante tutto, necessario e doveroso.
Francesco Filippi
Mussolini ha fatto anche cose buone
Bollati Boringhieri, pag. 131
12,00 euro
MIA MADRE, COM'ERA FATTA
Ludovica
L'ultimo libro che ho letto si intitola Il grande amore di mia madre, è stato pubblicato nel 2000 da Urs Widmer, scrittore svizzero-tedesco poco frequentato dalla nostra editoria. È uscito da qualche mese, ma non è una novità, era già stato pubblicato da Bompiani, con un titolo un po’ diverso e decisamente meno convincente: L’uomo amato da mia madre. L’editore Keller lo ripubblica, con la mediazione della traduttrice Roberta Gado, nel progetto di traduzione di tutte le opere di Widmer, dopo Il sifone blu e Il libro di mio padre.
Il libro racconta della madre dell’autore, nel romanzo Clara, perdutamente innamorata di Edwin, al secolo Paul Sacher, noto direttore d’orchestra nella Svizzera del secondo Novecento. Clara ama Edwin più di quanto non ami se stessa, di un amore testardo e ostinato; come ostinata è la sua incolmabile nostalgia per una spensieratezza che non sembra avere mai conosciuto.
La narrazione scorre tra scene di vita quotidiana, momenti felici (pochi, per la verità), concerti, serate, delusioni: episodi di cui molto probabilmente Clara stessa, per via dell’elettroshock, aveva perso la memoria e ricordi così intimi che, possiamo supporre, non avrebbe mai voluto che si sapessero, né, tanto meno, che fosse suo figlio a raccontarli. «Com’era fatta. L’enigma che si portava dentro, estranea persino a sé stessa. All’epoca era fatta che ogni tanto – ma ogni quanto? e perché? – ribolliva tutta dall’interno, testa, cuore, pancia. Una brusca inondazione di lava, come se di colpo le crollassero dentro le mura difensive».
La ricostruzione della storia della Junges Orchester, di cui Edwin è direttore e fondatore e di cui Clara era stata per tanto tempo, da quando Edwin glielo aveva chiesto, segretaria e tuttofare, restituisce con grande vivacità il clima di quegli anni. Assistiamo ai fischi delle prime esibizioni, alle trasferte, ai grandi successi, che rievocano quei repertori pioneristici che comprendevano Bela Bartók, Darius Milhaud, Armand Hiebner, Maurice Ravel. È un piacere seguire le vicende di questi personaggi tra le vie di Basilea, a Parigi, poi di nuovo in Svizzera, nel giardino che Clara amministra con cura e che circonda la sua casa ai margini della città, e poi in Piemonte, a Villadossola, paese d’origine di suo padre.
Nel modo di narrare di Widmer c’è qualcosa dell’atmosfera di sogno e di attesa della lanterna magica, ogni tanto un fotogramma dalla grande storia (la guerra, la pace, la crisi del ventinove, il duce e i suoi tirapiedi) e poi, subito dopo, sua madre intenta a piantare lillà, sua madre nella vasca da bagno, sua madre china sui registri contabili di famiglia mentre inizia a capire che, tutto a un tratto, è diventata povera. Immagini a volte molto nitide, altre volte, invece, quasi inspiegabilmente, imprecise, vaghe, in cui rivive, talvolta offuscato dalla memoria, quello sguardo pieno di ammirazione e curiosità, ma disincantato al tempo stesso, con cui i bambini guardano i loro genitori.
Urs Widmer
Il grande amore di mia madre
Keller Editore, pag. 160, trad. Roberta Gado
15,50 euro
VIAGGIO A TOTTORI
Mauro
Interno di una bottega di un barbiere, il barbiere è concentrato a tagliare i capelli di un cliente, è di spalle e non riusciamo a scorgerne il viso, una bella luce entra dalle vetrine, un bambino è seduto sul pavimento e sta giocando con delle macchinine.
«Quando penso al mio paese natio… un’immagine appare vivida nella mia mente. Un primo pomeriggio di primavera io, ancora bambino, sto giocando seduto sul pavimento del negozio di mio padre. Il pavimento soleggiato… è il ricordo di un momento felice della mia infanzia».
Al tempo di papà di Jiro Taniguchi, forse il suo capolavoro, inizia così, con due bellissime tavole a colori. A seguito della morte del padre, Yoichi è costretto a tornare a Tottori da cui manca da quindici anni. Un viaggio, quello dalla metropoli al paese natio, che sarà anche un viaggio nel tempo. La veglia funebre e l’incontro con la famiglia daranno il via a lunghi flashback in cui verrà scandagliato il difficile rapporto con il padre e i motivi del rancore che fecero allontanare Yoichi da casa.
Evento centrale del libro è l’incendio che devastò Tottori nel 1952. Taniguchi, che era nato lì cinque anni prima, lo visse in prima persona. A causa dell’incendio, che rade al suolo due terzi delle case della città, il padre di Yoichi, per pagare i debiti, è costretto a un difficile periodo di duro lavoro; periodo in cui trascura la famiglia e la moglie, che lo abbandona nel giro di poco tempo lasciandolo solo con i figli. Yoichi non può sopportare di essere stato abbandonato dalla madre per colpa dell’orgoglio del padre e, ad anni di distanza, ancora, prova un rancore profondo che scopriremo essere immotivato.
I ricordi del protagonista, spesso frammentari e selettivi, capita si completino solo nel momento in cui si confronta con altri familiari. Due scene lo raccontano molto bene: nella prima, all’inizio del libro, il piccolo Yoichi ricorda la madre che, vestita in modo elegante, danza con un uomo di cui non riesce a mettere a fuoco il volto, forse l’amante o un corteggiatore; solo quando lo zio e la sorella gli ricorderanno il periodo dell’occupazione militare americana e delle feste alla caserma degli ufficiali, Yoichi si chiederà se quell’uomo non sia invece suo padre. Ed è proprio da questo istante che Yoichi inizia a mettere in discussione tutta l’impalcatura di falsi ricordi che in tanti anni si era costruito. L’altra scena, a sottolineare l’avvenuta riconciliazione, si trova verso la fine del libro. Una tavola è identica alla prima: bottega di un barbiere, bambino che gioca; solo che, adesso, l’uomo di spalle serioso e curvo sul suo lavoro non c’è più, ma c’è, invece, lo sguardo sorridente e protettivo di un padre.
Serializzato su rivista nel 1994 e raccolto in volume l’anno seguente, questo libro in parte autobiografico – l’autore, come il protagonista, lasciò passare un periodo molto lungo prima di tornare a Tottori e riallacciare i legami con la famiglia – è quello in cui Taniguchi porta a piena maturazione i temi su cui verterà la seconda parte della sua carriera: il conflitto generazionale, lo sradicamento dalla propria città, il valore dei ricordi; temi che riprenderà nel successivo In una lontana città.
Se amate l’ultimo Ozu o i film di Isao Takahata (in special modo Pioggia di ricordi) questo libro, intenso e commovente, è un manga che amerete e che consiglio sopratutto a chi non ne ha mai letti.
Jiro Taniguchi
Al tempo di papà
Panini Comics, pag. 280, trad. di Yamane Midori
22,00 euro
MEGLIO SOLI, ALMENO OGNI TANTO
Monica
Confesso di essere vittima di un'infatuazione per Claudio Giunta che mi spinge a trovare irrinunciabile tutto quel che lui scrive,
probabilmente anche la nota della spesa. Lo trovo lucido, brillante, divertente, umilmente snob, dotato di quella rara capacità di muoversi con agio oltre i confini dei generi,
passando dal registro più colto a quello squisitamente pop senza disdegnare il tono a tratti confidenziale che mette subito il lettore a proprio agio.
Il tutto con una verve blandamente umoristica che colora con successo un paesaggio, quello islandese qui descritto, che rischierebbe altrimenti di apparire tetro e a tratti desolante.
Questo di Giunta è un bellissimo libro sull'Islanda che è insieme una guida, un saggio, un diario di viaggio, un pretesto per parlare di sè,
di noi, di storia, geografia, musica, letteratura, società.
In un'edizione impeccabilmente sobria, che proprio per questo si distingue in un mare di edizioni spesso assillantemente strillanti,
Quodlibet ci presenta questo libro confezionato a quattro mani in quanto corredato dalle foto di Giovanna Silva. A una serie di capitoli che ricostruiscono piuttosto dettagliatamente
il viaggio in Islanda (inclusi i mutevoli stati d'animo di chi lo compie, il viaggio, dettati dai repentini quanto radicali cambi di tempo atmosferico) seguono 32 foto di Giovanna Silva,
poi un interessante "Dossier Islanda" con approfondimenti culturali e infine un'utile appendice con gli "Appunti locali", con tanto di indicazioni e suggerimenti
su dove dormire e cosa comprare, come in una qualsiasi guida turistica.
Provocatorio fin dal titolo, in un intelligente e vivificante gioco del rovescio che tende a spiazzare il lettore per poi sorprenderlo facendogli intuire che la prima impressione era sbagliata,
questo Tutta la solitudine che meritate, che suona all'inizio minaccioso, ci conduce in giro per quest'isola strana e dura, difficile e poco abitata, facendocene scoprire l'aspetto
tonificante e portandoci ad amarne l'asprezza, fin quasi a farci nascere non dico l'impellenza ma il desiderio di andarci, a trovare questa solitudine di cui forse avremmo
a tratti tutti bisogno. Una solitudine non punitiva, anzi quasi una ricompensa, questa possibilità di aprire una finestra su un mondo diverso, che ci aiuti magari a capirci un po'
meglio, noi stessi, così complicati e confusi da un mondo sempre così urlato. La solitudine che, appunto, tutti un po', almeno ogni tanto, ci meriteremmo.
Claudio Giunta, Giovanna Silva
Tutta la solitudine che vi meritate Viaggio in Islanda
Quodlibet Humboldt, Pagg 183
euro 19,00
Il morbo nazionalista fermato da un calcio di rigore?
Matteo
Come hanno teorizzato Roland Barthes e Marc Augé tra gli anni Settanta e Ottanta del Novecento, il calcio è un fenomeno religioso. Le squadre sono veri e propri totem, con le quali i tifosi si identificano in un modo primitivo. Si può aggiungere che il calcio è anche un fenomeno politico. Come Gigi Riva ci dice in modo puntuale nel suo L’ultimo rigore di Faruk. Una storia di calcio e di guerra, edito da Sellerio. Lo fa raccontando, con uno stile concitato e sincopato degno di una partita di calcio ad alta tensione, un rigore sbagliato. Quello tirato dal capitano dell’ultima nazionale jugoslava unita, il bosniaco Faruk Hadzibegic, il 30 giugno del 1990 contro l’Argentina di Maradona allo stadio Artemio Franchi di Firenze.
Riva parla di calcio da un osservatorio molto particolare come quello balcanico, dove la guerra è la prosecuzione dello sport con altri mezzi e il legame tra potere e sport è stato sempre molto intenso e particolarmente perverso. Indimenticabile l’immagine di Sinisa Mihajlovic che all’aeroporto di Belgrado consegna la coppa Intercontinentale, vinta dalla Stella Rossa a Tokio, ad Arkan che gli sussurra con in mano una cesta: «Voi mi avete portato il trofeo intercontinentale e io vi ho portato in cambio la terra di Slavonia».
La nazionale jugoslava diventa lo specchio per raccontare la disgregazione della Repubblica federale. Le due parole chiave su cui si è retto il socialismo jugoslavo, “bratstvo i jedinstvo” (“fratellanza e unità”) iniziano a perdere di significato. Dentro allo spogliatoio ci sono serbi, croati, bosniaci e sloveni e tutti i giornali accusano i diversi giocatori di essere la “quinta colonna” del proprio paese. L’allenatore Ivica Osim, detto “il professore” per la sua laurea in matematica, cerca di fare da mediatore in questo clima pronto ad esplodere e sopportando, anche se mal volentieri, i politici che ogni sera lo chiamano intimandoli di schierare i giocatori di un’etnia piuttosto che di un’altra.
Il mondiale italiano del 1990 è stato un appuntamento imprescindibile per il cosiddetto “secolo breve”. Nel 1989 crolla il muro di Berlino e la Germania viene riunificata grazie agli sforzi politico-diplomatici di Helmut Kohl, Gorbaciov comincia una politica di riorganizzazione dell’economia e della struttura sociale della Russia, conosciuta con il termine Perestrojka. In Serbia si sta per votare un referendum per limitare l’autonomia degli albanesi del Kosovo, mentre la Croazia e la Slovenia propongono di trasformare la Repubblica Federale in una confederazione, primo passo verso l’indipendenza. C’è un inviato molto speciale di questo mondiale di calcio: Henry Kissinger, che sulle colonne del Los Angeles Times annota come la manifestazione alimenti il nazionalismo, non scomparso nemmeno nel ventesimo secolo.
E allora cosa sarebbe successo se Faruk avesse realizzato il rigore, non facendosi ipnotizzare dal portiere argentino Sergio Goycochea? Beh, nulla. Ma con le stesse parole di Faruk: «Forse la guerra sarebbe cominciata tre mesi dopo». Del resto c’è un’altra nazionale jugoslava che nello stesso anno vince il mondiale in Argentina: quella di basket. Tutti ci ricordiamo alla fine della finale contro la Russia Vlade Divac che strappa dalle mani di un uomo biondo con i baffi la bandiera della Croazia dicendogli: «Stronzo, oggi ha vinto la Jugoslavia». Con quel gesto si rompe definitivamente una delle più belle amicizie dello sport, quella tra il serbo Divac e il croato Drazen Petrovic. Motivo in più per dire che nessuna vittoria sarebbe potuta essere una panacea al male nazionalista che imperversava nei Balcani ed era pronto ad esplodere con tutta la sua forza.
Un libro che, a metà strada tra il romanzo e il saggio, piacerà a chi ama il calcio ma anche a chi vuole approfondire la politica di un periodo fondamentale nella storia del Novecento, perché del resto il “secolo breve” è cominciato a Sarajevo, con l’attentato all’arciduca Francesco Ferdinando e alla moglie Sofia per mano di Gavrilo Princip, e finirà sempre a Sarajevo, con la fine della terza guerra balcanica. Da leggere.
Gigi Riva
L'ULTIMO RIGORE DI FARUK
Sellerio, 2016, 192 pp.
euro 16
SE SANDRA RECITA IL COPIONE DI CLARA
Ludovica
Iniziamo dalla copertina. La foto che vediamo ritrae Sandra Mozarowsky, una giovanissima attrice di Destape (un genere di film erotico, tollerato dal regime, che girava a buon mercato nella Spagna degli anni Settanta), morta a soli 18 anni in circostanze mai chiarite. Ha uno sguardo sensuale, ma non ammiccante, è stretta in un abito di pizzo, dimostra molti più anni di quelli che ha.
I giornali scandalistici che all’epoca riportarono la notizia parlarono per lo più di un triste incidente, ma a ripercorrere la vicenda un po’ più da vicino viene l’idea che ci sia dell’altro. Qualcuno aveva insinuato che era l’amante del re, che a ucciderla erano stati i servizi segreti per evitare lo scandalo di una gravidanza che iniziava a mostrarsi in un accenno di rotondità.
Clara Usón (autrice per Sellerio di un altro grande romanzo, La figlia, pubblicato nel 2013) suggerisce che forse dietro a quel suo sporgersi così imprudentemente dal balcone ci sia stato un atto volontario. «I suicidi sono omicidi timidi. Masochismo invece che sadismo», lo scrisse Cesare Pavese, lo si legge a un certo punto nel romanzo, ma Usón lo corregge: «il suicida cerca la morte, agisce con premeditazione e malafede e quindi è un assassino pauroso, un assassino timido». Quanto a Sandra, chi può dirlo?
Ciascuna di queste ipotesi (omicidio, suicidio, incidente) potrebbe condurre la trama in chissà quali direzioni. Il fatto è che il romanzo non è propriamente la storia di questa attrice, né la storia della Spagna di quegli anni, né la storia dei tanti personaggi che entrano e escono nella scena come si entra e esce da un sipario, come si entra e esce dalla vita (tra questi, un indimenticabile Wittgenstein, che la Usón convoca alla sua scrivania, più e più volte, come si fa con un amico immaginario).
E allora, se non parla di Sandra, né del re Juan Carlos, né di Wittgenstein, né della madre di Sandra, né del padre di Wittgenstein, o dei suoi piccoli allievi, di che parla questo libro? È la storia di Clara, semplicemente. Lo capiremo solo alla fine, quando, dopo una lunga sospensione che dura quasi tutto il libro, all’improvviso entreremo in una scrittura densa e vorticosa. E sarà un finale tremendo e inaspettato, che dice, audacemente, della vita e delle sue prove.
Clara Usón
L’ASSASSINO TIMIDO
Sellerio, 2019, pagg.196 trad. dallo spagnolo di Silvia Sichel
euro 18
Un fortunato incontro casuale
Laura
Mettendo in ordine gli scaffali della libreria, ho visto per caso un saggio di M.Amis sulla letteratura. "Contro i cliché" ed.Einaudi. Il titolo mi è sembrato promettente; l'ho sfogliato e poi abbandonato perché la critica letteraria non mi seduce più di tanto.
Ma sono andata a vedere la bibliografia di Amis. Ho trovato e letto un breve romanzo giallo "Il treno della notte" ed.Einaudi. Mi è piaciuto.
Così sono arrivata a "LIONEL ASBO".
E mi sono innamorata definitivamente di Amis e mi sono innamorata di Lionel.
E' un libro scritto bene,scattante,asciutto;con un bellissimo ritmo; in certi momenti mi sono lasciata trasportare dal suono della scrittura perdendomi.
E' ironico, cattivo,lucidamente satirico. E' intelligente ma non pesante ne' pedante.
E' divertito,surreale,strabordante; un libro nel quale sono entrata immediatamente e totalmente.
Non voglio raccontare LIonel Asbo; penso che sia più bello scoprirlo leggendolo e sorprendersi.
Martin Amis
LIONEL ASBO stato dell'Inghilterra
Einaudi, pagg 320, trad. dall'inglese di Federica Aceto
euro 20
Sembrava fosse amore invece era un calesse
Matteo
La copertina di questo libro è già una dichiarazione di intenti. L’ha realizzata l’artista brasiliano Laurindo Feliciano che, col suo stile vintage e surreale e con un gesto nostalgico che incontra il design grafico, anticipa i temi che toccherà la scrittrice Jenny Offill.
Una coppia della middle class americana anni Cinquanta si guarda: la moglie, bionda platinata, sorride di un sorriso forzato; davanti a lei il marito, il suo punto d’appoggio o almeno così sembrerebbe, che tiene stretto appoggiandosi con le mani alle sue forzute spalle. Il viso dell’uomo è circondato da una nuvola che ci impedisce di vedere il suo viso, rendendolo una figura aleatoria, una costruzione nata nella testa della moglie e, vedremo, sarà proprio così.
La protagonista del libro della Offill è la moglie disegnata da Feliciano, una donna che ha accettato diversi compromessi, ma che nonostante una vita grigia e modesta cerca la felicità in ogni dove. Ragazza di belle speranze all’università, decide di non sposarsi per diventare una grande scrittrice, anzi un “mostro d’arte” come Nabokov, così da non interessarsi mai delle cose terrene. Ma scende dal suo iperuranio personale quando incontra e sposa un ragazzo. Da quel momento si attacca disperatamente a questo matrimonio, cercando di farlo andare nel miglior modo possibile, ma in lei è presente, fin dall’inizio, la delusione di un’aspettativa mai realizzata.
La nascita della figlia sostituisce il marito nel suo cuore: lei è prima madre e poi moglie. Spesso un figlio, anziché unirla, contribuisce al disfarsi di una coppia e infatti questa nuova presenza fa precipitare il loro rapporto in una spirale di autodistruzione. La crisi precipiterà in seguito alla scoperta del tradimento di lui, in crisi di mezza età, con una ragazza più giovane della moglie e con una frangia che la moglie era stata obbligata a tagliarsi dal marito stesso (particolare importantissimo del libro, che definisce la totale recisione del loro rapporto). Il finale a sorpresa dimostra la maestria della Offill nel decriptare l’animo umano. Lascio però ai lettori il giudizio finale.
Jenny Offill ha scritto un libro omogeneo e commovente, e si vede che ha avuto come maestro un grande come Raymond Carver, per l’attenzione ai particolari che sembrano irrilevanti ma che invece sono fondamentali per raccontare la storia di questa coppia (un gesto della mano, una scossa della testa, uno sguardo di sbieco pieno di angoscia). La struttura è assolutamente originale: non ci sono dialoghi ed è tutto un lungo flusso di coscienza della protagonista. I suoi pensieri sono spesso intervallati da citazioni poetiche (Rilke in primis) e filosofiche (il suo amato Wittgenstein) che a volte riprendono gli eventi appena raccontati, altre invece lasciano stupefatti perché non c’entrano nulla con la storia. Del resto inconscio e subconscio sono così: fanno fare salti temporali e concettuali che poco si conciliano, ma che comunque spiegano molte cose di questa ragazza.
Un piccolo gioiellino da leggere tutto d’un fiato in una notte insonne.
Jenny Offill
Sembrava una felicità
NNEDITORE, pagg 168, Trad. di Francesca Novajra
16 €
L’UNICO VERO ANTIDOTO AL LUOGO COMUNE
Monica
In un momento pieno di parole spesso un po’ a vanvera, un libro che riporta alla realtà dei fatti non guasta, soprattutto se per giunta non è affatto un testo arido o noioso ma al contrario pieno di verve e con un ritmo trascinante. L’autorevole autore è, anzi purtroppo era perché se n’è andato da poco, pure un po’ bizzarro, visto che affiancava una brillante carriera di medico e statistico a quella di mangiatore di spade, come ben illustra lui stesso nelle prime pagine del libro.
Lo scopo che il dott Rosling si prefigge con questo testo, portato a termine con la collaborazione del figlio e della nuora, è quello di farci aprire gli occhi sulla REALTA’ dei FATTI attraverso una lettura ragionata delle statistiche anziché, come purtroppo spesso accade, sulle facili conclusioni cui arriviamo basandoci sulle nostre scarse informazioni, limitate competenze (non possiamo essere tutti esperti economisti o antropologi o infettivologi né tantomeno crederci tali come spesso accade) e idee superficiali che ci costruiamo in base a impressioni quasi mai supportate da uno studio reale dei fenomeni. Rosling ci scombussola da subito con un test dal quale usciamo inesorabilmente sconfitti e grazie al quale scopriamo che sì, la realtà non è rosea, ma non è nemmeno catastrofica come ci viene spesso dipinta. Dopo averci umiliati con lo scarso punteggio che inevitabilmente raggiungeremo al quiz (ma siamo in buona compagnia, come vedrete), l’autore ci accompagnerà su vari sentieri per mostrarci qual è la realtà dei fatti e non la percezione che di essi ci siamo costruiti. Un altro aspetto apprezzabile del dott Rosling è che, oltre a smontare i nostri pregiudizi, non individuerà, per quel non funziona, un “cattivo” cui attribuire tutte le colpe (pessimi giornalisti, finanzieri malvagi, politici corrotti e via dicendo), conscio del fatto che un capro espiatorio ci farebbe sentire a posto con la nostra coscienza e inesorabilmente dalla parte buona della barricata, cosa che non aiuta nella risoluzione dei problemi. Il libro si articola in vari capitoli che ci aiutano a smontare alcuni meccanismi viziosi (Istinto del divario, della negatività, della paura, della generalizzazione, del destino, della prospettiva singola, dell’accusa, dell’urgenza, delle dimensioni), trappole in cui cadiamo molto spesso più o meno inconsapevolmente.
Non fermatevi dunque alla copertina un po’ smargiassa che fa pensare più a un rotocalco urlato che al sapiente saggio che è in realtà, fatevi affascinare dagli utili grafici a bolle e tuffatevi nell’istruttiva realtà del sito www.dollarstreet.org
Insomma leggetelo, regalatelo per Natale a persone pessimiste e catastrofiste, regalatevelo se vi sentite tristi per le sorti del mondo. Come dice Hans Rosling “Non va tutto male. Anzi, le cose non sono mai andate meglio; lo dicono i fatti. L’unico vero antidoto al luogo comune”.
HANS ROSLING (1948-2017) è stato un medico, statistico e accademico svedese. Membro dell’Accademia di Svezia e del Karolinska Institutet, fondatore della sezione svedese di Medici senza frontiere e infine della fondazione Gapminder, ha vissuto vent’anni in Congo per studiare e combattere il konzo, una malattia epidemica paralizzante.
HANS ROSLING
FACTFULNESS Dieci ragioni per cui non capiamo il mondo. E perché le cose vanno meglio di come pensiamo
Rizzoli, 2018. Pagg 283 + un ricco apparato di note
20 €
IMPARIAMO IL CINESE CON DISINVOLTURA
Monica
Non è una grammatica, non è un dizionario, ma non è nemmeno un fumetto e basta, perché l’autore un’idea del cinese ce l’ha eccome, essendo che vive e lavora da anni a Taiwan, che non è Cina popolare ma è pur sempre Cina e ci si parla un cinese doc anche se la scrittura adottata è un pochino più complessa di quella della Mainland China. Stefano Misesti, comasco che lavora a Taipei da una decina d’anni, disegna, fotografa e dipinge. Ha al suo attivo diversi libri di fumetti, ma questo oltre a divertire ha un’altra meritoria funzione, che è quella di avvicinare il pubblico digiuno di cinese e aiutarlo a capire almeno vagamente come funzionano lingua, scrittura e pronuncia (anche con un accenno ai toni, che in cinese sono imprescindibili), nonché di aiutare chi un po’ di cinese sta cominciando a studiarlo a ricordare com’è costruito un carattere. Se le basi sono indiscutibili e le nozioni trasmesse inequivocabili, del tutto fittizio, strampalato e divertente il presupposto: Misesti immagina di incontrare un ipotetico “inventore di caratteri”, vestito in modo improbabile e anche piuttosto sfigato (a un certo punto viene “deriso dal 93% della popolazione” perché non è in grado di disegnare un cerchio), che nel corso del tempo costruisce, in modo bizzarro e spesso fortuito, per l’appunto le migliaia di caratteri che costituiscono la scrittura cinese. Certo l’approccio di Misesti è l’antitesi dello studio analitico dell’origine dei caratteri (divinazione, ossa oracolari ecc ecc), che certamente lui conosce benissimo, ma ci aiuta parecchio perché tra una risata e l’altra saremo in grado di memorizzare fino a 150 caratteri, il tutto “con disinvoltura”, come ci ricorda il motto che ricorre su tutte le pagine: IMPARO IL CINESE (TRADIZIONALE) CON DISINVOLTURA, appunto.
Stefano Misesti
IL CINESE A FUMETTI
Nicola Pesce Editore, 2017, pp 111
12 €
UNA TELENOVELA DEL SECOLO XI
Monica
Questo bellissimo romanzo giapponese (struggente, corposo) dell’undicesimo secolo mi ha avvinta come una serie tv, anzi non escludo che ne abbiano fatta una. Vita di corte in Giappone alla fine del primo millennio d.C., detta così suona noiosissima, in realtà è un susseguirsi di avventure amorose con protagonista il Principe Genji, uomo bellissimo e di grande successo sociale, capace di ammaliare qualsiasi dama, giovane o meno, e che in tutte trova qualcosa di unico e affascinante e alle quali è e resta per sempre in qualche modo legato e devoto. Certo c’è una favorita, che da subito piace anche a noi non solo per la bellezza che ci viene raccontata in toni del tutto diversi da quelli che si possono immaginare: mai descrizioni fisiche se non, al massimo, qualche accenno alla lunghezza delle chiome, eppure noi ne percepiamo il fascino, di modi e di qualità morali, di generosità, curiosità, apertura. Il tutto è sostenuto insomma da una visione del mondo femminile mai crudele o meschina, il che è forse dovuto al fatto che l’autrice è una donna (UNA DONNA!!!! Nel 1000!!!! In GIAPPONE!!!!!!). Insomma, quella che parrebbe una parata di conquiste del Nostro, è invece uno studio attento della psicologia umana, delle relazioni, un racconto di respiro universale, con una morale di ispirazione buddista (a ogni azione corrisponde un effetto: tant’è che Genji in età matura sarà costretto a ingoiare la stessa umiliazione che ha inferto a sua volta ad altri, da giovane). A Genji “Lo Splendente” ci si affeziona, se ne leggono le gesta come se fosse nostro fratello, un nostro caro amico, si soffre con lui, ci si innamora con lui e di lui, e alla fine ci si sente un po’ svuotati, senza la sua compagnia. Sia perché lui muore ma soprattutto perché si è finito il libro.
Io ho letto la versione vecchia, basata su una traduzione inglese dal giapponese, ma da qualche anno è in commercio quella più completa, nella traduzione di Maria Teresa Orsi, certamente più rispettosa dell’originale e più accurata dal punto di vista filologico, alla quale la studiosa ha dedicato dieci anni di lavoro. Certo è una lettura lunga e impegnativa, ma non si può mica vivere solo di Murakami!
Murasaki Shikibu
LA STORIA DI GENJI
Einaudi, 2015, (pp più di mille ma non spaventatevi),Traduzione dal giapponese di Maria Teresa Orsi
€ 28
LASCIARSI ANDARE
Laura
"La vegetariana" libro visionario.
Yeong-hye fa un sogno ha una visione. E smette di mangiare carne. Ma non è importante cosa sceglie di fare. Si allontana si libera. Non c'è più buon senso non ci sono più leggi, convenzioni.
Yeong-hye diventa leggera.La storia può sembrare dura, violenta. In realtà la vera violenza si sente solo quando madre padre sorella marito vogliono riportare Yeong-hye alla realtà costringendola ad accettare regole che non sono più le sue.
Cercando significati e metafore si perde l'occasione di lasciarsi andare e godere un libro elegante raffinato seducente sensuale pieno di colori e bellezza. Senza volgarità cattiveria. Leggero e impalpabile. Libero.
Han Kang
LA VEGETARIANA
Adelphi, 2016, pp 177, trad. (dall'inglese) di Milena Zemira Ciccimarra
€18
LA SPERANZA OBLIQUA
Matteo
La poesia di Gianluca D’Andrea è un esperimento, in continuo divenire, il suo lignaggio non può sentire appagamenti. Anzi non deve. La sua ultima raccolta poetica Transito all’ombra è costruita su una struttura portante ben definita e dalla grande importanza simbolica. Il numero ricorrente è il 14: la prima parte Storia, i ricordi sommata al primo dittico dà proprio 14, così come Immagini, i ricordi e la parte Era nel racconto insieme a Zone recintate. Il numero ha a che fare con la vita privata del poeta: è proprio a 14 anni che comincia a scrivere poesie. La struttura e le sue fondamenta sembrano ben salde, ricordano una sinfonia mozartiana per la sua soavità e leggerezza. Ma ecco, con un colpo di vento, la dissonanza che fa diventare la musica atonale: l’ultima parte della raccolta Notturni, pensieri nati sul balcone di casa del poeta a Treviglio nelle notti insonni, è rappresentato dal numero 7. Il palazzo costruito da D’Andrea sembra improvvisamente crollare, il terreno sotto i piedi sdrucciolevole e le certezze venire meno. E’ proprio in questa dissonanza, in questo deserto del reale che nascono le poesie di Transito all’ombra.
L’opera è un ininterrotto susseguirsi di piano individuale e storia collettiva: i ricordi intimi e personali del poeta sono sempre perforati da schegge impazzite di storia. Le poesie, che possono essere definite piccoli quadri di vita quotidiana, sono deformate dalla memoria collettiva, così il ricordo tutto infantile di un gioco nel cortile del palazzone di Messina, dove è nato, viene sporcato dall’immagine di Francisco Franco e Ustica. La storia, per chi come D’Andrea è cresciuto tra anni Ottanta e Novanta, ossia quando «gli individui al loro fondo,/tutti impegnati, da bolle a sognare/il proprio mondo», è inaccessibile, arriva da lontano senza dare spiegazioni. La memoria collettiva con il suo patrimonio gli è preclusa: non riesce neppure a vedere la cappella degli Scrovegni dipinta splendidamente da Giotto, ma si deve accontentare di guardarla, in una visione postmoderna, su una guida ingiallita. La copertina realizzata dall’artista svizzero Luca Mengoni mette in risalto questo fattore: le gambe di un uomo, D’Andrea stesso, in una visione pasoliniana sono immobilizzate dal serpente della storia che con le sue spire lo blocca, forse per sempre. Il suo passaggio resta all’ombra, la sua intimità è vinta dalla furia della storia. D’Andrea scrive poesie così sensoriali, che anche l’odore diventa fondamentale: al ricordo di un temporale estivo, odore di vita, si sovrappone quello dell’epoca in cui vive, odore di morte. Tutta la raccolta presenta questa stratificazione di tempi, l’accavallarsi di piano individuale e dimensione collettiva. Il poeta ci parla guardando un mondo che sta crollando, non per niente le parole «macerie» e «rovine» sono molto presenti.
È da questa situazione disperata che il lettore deve tendere l’orecchio per ascoltare la voce di D’Andrea. In un’epoca di parole urlate con rabbia, il poeta ha l’obbligo morale di andare controcorrente e di parlare sommessamente, «Tutti siamo piccoli, Sofia,/abbiamo poco o niente da dire,/eppure questo fiato, così buffo,/è il dovere che ci unisce e dissolve». In questa totale solitudine, in questa profonda assenza della presenza, la voce di D’Andrea è un lungo tremolio, un sussurro a cui bisogna prestare attenzione: è la voce di un uomo che come l’angelo di Paul Klee è proiettato verso il futuro ma con un occhio in direzione del passato. In questa totale negatività che gli fa dire «eppure la terra è statica in milioni di anni senza/ noi, ci raggiunge e vomita», in questo stato di isolamento perenne che svuota il corpo, una labile traccia di speranza è presente ed è rappresentata dalla piccola Sofia, la figlia di D’Andrea. La salvezza arriva dai bambini che con il loro sguardo obliquo e pieno di meraviglia possono ricostruire ciò che i loro genitori hanno distrutto e tradito.
Gianluca D'Andrea
TRANSITO NELL'OMBRA
Ed MARCOS Y MARCOS, 2016, pp 112
16 €
Le ragioni di Giuda
MAURO
Qualche anno fa Mondadori ha pubblicato un libro intitolato Il mio traditore in cui l'autore, Sorj Chalandon, romanzava la sua vicenda di francese simpatizzante per il movimento repubblicano irlandese. Nel libro, Chalandon alias Antoine, giovane liutaio parigino, scopre il tradimento di un suo caro amico, soldato dell’Ira, che per oltre 25 anni era stato un informatore dei servizi segreti inglesi.
In un'intervista Chalandon ammette: «Non mi bastava. Perché è facile versare lacrime nei panni dell'uomo tradito, più difficile essere il traditore. Quindi ho scritto un secondo libro, perché nel primo non si capiva perché lui fosse diventato un traditore e dare voce in prima persona al traditore mi serviva a capire come fosse successo tutto. Nel primo libro ho scavato una tomba, nel secondo ho portato fiori a questa tomba».
Questo secondo libro (assolutamente indipendente dal primo) è oggi pubblicato in Italia da Keller, con il titolo Chiederò perdono ai sogni. Tyron Meehan è un informatore degli inglesi che ormai vecchio e stanco ritorna a Killybegs in attesa dei sicari dell'Ira (e Retour à Kyllibegs, meno fuorviante, forse più interessante, è il titolo originale) e qui racconta la sua vita: l'infanzia poverissima alla mercé di un padre nazionalista e violento, i soprusi inglesi, l'ingresso nell'Ira, il carcere, la protesta delle coperte, e di come è diventato un eroe e un punto di riferimento per un'intera comunità e di come, sempre rimanendo fedele ai suoi ideali, ha tradito tutti.
Giornalista di Libération, Sorj Chalandon, è stato in molti teatri di guerra ed è soprattutto famoso per i suoi reportage sull'Irlanda del Nord; questo bel romanzo si giova del suo scarno stile giornalistico.
Sorj Chalandon racconta un secolo di storia irlandese e soprattutto dei movimenti “terroristici” degli anni Settanta e Ottanta; non scrive per giustificare né tantomeno per condannare, ci chiede solo di non giudicare. Ci mostra come il nascere in certi ambienti e in particolari momenti storici ti consegna necessariamente alla violenza.
Nato e cresciuto in guerra, la guerra è il suo solo orizzonte visibile, eppure il protagonista sogna:
«…ed ecco che un giorno l'Irlanda si unirà di nuovo. Ecco che il confine sarà calpestato da migliaia di bambini sorridenti. Ecco le nostre donne, i nostri uomini, le nostre ragazze e i nostri soldati che correranno per i prati verso i nostri fratelli della Repubblica. Ecco le loro strette, i loro abbracci, le loro grida di gioia, finalmente. Ecco il vento che si alzerà e il sole sulle nostre bandiere. (...) E i nostri fratelli protestanti che accetteranno le nostre mani tese. E mai più la guerra, e la pace per sempre. E io, in un cono d'ombra, senza neanche l'uniforme, senza medaglia, senza amici, senza urrà. Io in piedi in mezzo al mio popolo, sconosciuto, anonimo. Io che avrò fatto tutto questo, tutto. Che potrò finalmente chiedere perdono a Danny Finley, a Jim o'Leary, e chiedere perdono ai miei sogni.»
Sorj Chalandon
CHIEDERO' PERDONO AI SOGNI
KELLER editore, 2014, Trad dal francese di Silvia Turato
€ 16,50
Un libro buono un buon libro?
LAURA
Piccola cittadina americana, personaggi semplici, storie quotidiane, più o meno. Più o meno perché le storie dei personaggi principali non sono proprio quotidiane. Sono "esemplari". Servono per farci immaginare un paesino dove ci sono i cattivi e i buoni e i buoni vincono, dove la gente si occupa degli altri e si aiuta.
Ma non è il filmaccio americano melenso e sdolcinato. La bontà la solidarietà e il lieto fine sembrano naturali e possibili. Senza esagerazioni. Senza forzature.
Non sofisticato ne' nello stile ne' nella storia. Semplice consolante incoraggiante tranquillizzante.
Irreale? Ma tutti i libri non sono veri. Raccontano storie. Questo racconta una storia buona.
Libro buono buon libro?
Qualche volta ci possiamo anche permettere di leggere una storia buona!
Kent Haruf
Canto della pianura
NNEditore, pagg 304, traduzione di Fabio Cremonesi; fa parte di una trilogia
18 €
CONTRORECENSIONE
Matteo
William Stoner si iscrisse all’Università del Missouri nel 1910, all’età di diciannove anni Otto anni dopo, al culmine della prima guerra mondiale, gli fu conferito il dottorato di ricerca e ottenne un incarico presso la stessa università, dove restò a insegnare fino alla sua morte.
Ecco l’incipit di Stoner di John Williams, libro che ebbe un’accoglienza a dir poco fredda, anzi meglio dire glaciale, quando uscì nel 1965 e poi è diventato un caso editoriale nel 2003, quando ristampato dalla New York Review Books vendette 50.000 copie attraverso il passaparola tra i lettori. Ma com’è possibile? Avete letto l’incipit? In tre righe è riassunto tutto il romanzo, si potrebbe quasi chiudere il libro e passare al prossimo, accatastato sul comodino. Invece no, una volta che con gli occhi si va avanti si viene completamente catturati da questo uomo, poco stimato dai colleghi e di cui nessuno studente si ricorda.
La scrittura di John Williams è delicatamente potente, scusatemi l’ossimoro, ma è così, non trovo parole migliori. Ha una vera e propria maestria nel riuscire a modellare le parole, basti guardare l’utilizzo meraviglioso degli aggettivi, che sono sempre al posto giusto e al momento giusto. E allora il lettore non può che rimanere incantato dalla vita assolutamente normale, al limite del banale, di William Stoner, grazie alla scrittura di Williams ma anche perché si entra a “piedi uniti” nei particolari della vita del nostro protagonista, e si sa che Dio si trova nei dettagli. Si riesce così a rimanere affascinati da un uomo che non ha mai viaggiato, non allontanandosi mai oltre centocinquanta chilometri dalla facoltà dove lavora, ma che in realtà ha un fuoco dentro. Basta vedere gli occhi di William Stoner: sempre lucidi, dallo sguardo mai pigro, almeno fino allo scoppio della seconda guerra mondiale.
Questo libro parla dell’animo umano, delle sue debolezze: in una minuziosa ricostruzione dei dettagli diventa infine universale e si rivolge a tutta l’umanità.
Consiglio di leggerlo almeno una volta all’anno, perché ogni volta si scopriranno nuove sfaccettature di questo uomo e di tutto il mondo di relazioni che gli girano attorno.
Controindicazione: crea dipendenza
John E. Williams
STONER
Ed FAZI, pp 132, trad di Stefano Tummolini
€ 17,50
CACCIA AL LADRO
Monica
Pechino di oggi, gente che si arrabatta nella quotidianità alla faccia (o forse alla rincorsa) del grande sogno cinese.
La trama, movimentatissima, è quella di un quasi giallo urbano, dove la posta in gioco è all’inizio un marsupio rubato a un poveraccio ma via via diventa materiale sempre più scottante, in una sequela di avvenimenti a incastro in cui si muovono, o per meglio dire si agitano, i personaggi più disparati, le varie categorie che popolano la vita urbana nella Cina di oggi. Dall’imprenditore rampante con la moglie infelice e obesa ma più furba di quanto si possa sospettare, al migrante cornuto e mazziato che oltre a perdere continuamente il lavoro perde anche la moglie che se la fa con il suo ex imprenditore, ai giovani sempre in caccia di occasioni per far soldi, alle bande di malavitosi che controllano diversi segmenti della città, agli investigatori privati, ai funzionari corrotti e ai loro scagnozzi, alle parrucchiere/prostitute. Insomma un ritratto vivace e divertente di una parte di Cina di oggi, dove prevale sì l’interesse per i soldi, ma in cui resiste una tradizionale logica di rispetto delle convenzioni, sulle quali regna sovrana l’atavica paura cinese di “perdere la faccia”. Molti i ritratti spassosi, molti i protagonisti, ingenui e scaltri allo stesso tempo e che non sono mai, come del resto nella realtà, buoni o cattivi fino in fondo, il che ce li rende amabili anche quando si tratta di vere e proprie canaglie.
Il tutto è opera di Liu Zhenyun, scrittore di origini contadine, classe 1958, ancora poco tradotto in Italia ma capace di una leggerezza a tratti molto comica e in grado di descriverci la realtà cinese in modo più efficace di tanta paludata saggistica.
Liu Zhenyun
OGGETTI SMARRITI
Metroopoli d'Asia, trad. dal cinese di Patrizia Liberati, 2015
€ 15
Italiani cinesi o cinesi italiani?
Monica
I pregiudizi sui cinesi, si sa, si sprecano. Lasciando da parte quelli più infamanti e odiosi, che nascono dall’ignoranza mista a paura di chi da sempre sventola il vessillo del pericolo giallo come spiegazione di tutti i mali che affliggono il nostro paese, non mancano però quelli che, pur non essendo offensivi, lasciano comunque trapelare una profonda diffidenza: i cinesi arrivano dappertutto, invadono tutto, ci portano via il lavoro, si isolano, chissà cosa mangiano, e via di questo passo. Perciò è bello, ogni tanto, poter presentare un libro in cui cinesi e italiani si confondono, si fondono in un’unica identità. E’ un po’ la storia di Matteo Demonte, o meglio delle sue origini: il nonno, cinese di Qingtian, provincia del Zhejiang (Cina centrorientale), arriva a Milano nel 1931 e qui si barcamena tra piccoli commerci, fino a quando conosce una sartina arrivata da Cremona: i due si sposano e danno il via, oltre che a una florida impresa commerciale, a una famiglia mista e via via sempre più milanese; i tre figli sposeranno a loro volta altri italiani e da una di queste coppie nascerà proprio Matteo. Matteo Demonte e Ciaj Rocchi hanno confezionato a quattro mani questo bellissimo graphic novel, riproducendo fedelmente nei disegni le foto d’epoca che ci presentano una Milano d’altri tempi e una nascente Chinatown. Un documento prezioso, ben confezionato, molto curato sia dal punto di vista grafico che storico, ricco di dettagli e di richiami evocativi, a partire dal titolo, che è anche quello di un classico confuciano. Matteo e Ciaj sono venuti a presentarlo all’Incrocio Quarenghi, ed è stato proprio un bel pomeriggio, che ci ricorderemo per un bel po’.
Ciaj Rocchi e Matteo Demonte
PRIMAVERE E AUTUNNI
Ed. BeccoGiallo, pagg 160
€ 18
UNA VITA
Laura
Questa estate non ho letto molto,come sempre d'estate. Soprattutto se c'e' il sole. Il mio cervello desidera vagare libero e non concentrarsi su nulla.
Ma ho fatto il compito; ho letto "Stoner". Da quando è uscito lo volevo fare.
L'ho letto in pochi giorni.E' la storia di una vita, una vita consapevole, contraddittoria, a suo modo non conformista, a volte inerte ma piena di entusiasmi, di grande dolore ma anche di passione e di momenti felici.
Scritto bene, interessante.
Ma non mi ha sedotto.E' un punto di vista molto personale e probabilmente poco oggettivo. In questo momento io ho voglia di leggere libri che mi sorprendono. Per la descrizioni di mondi che mi sono sconosciuti, per lo sguardo diverso su mondi che conosco, per uno stile particolare.
Secondo me ci sono periodi in cui si desidera, o si ha bisogno, di leggere libri in cui ci si identifica, che ci fanno rivivere cose vissute, emozioni provate, tormenti o piaceri noti,che ci portano su strade percorse. Questo succede leggendo "Stoner".
Oppure si desidera, o si ha bisogno, di scoprire che esistono strade nuove, vite diverse.
John E. Williams
STONER
Fazi editore, pp 332, traduzione di Stefano Tummolini
€ 17,50
Raul Montanari il bardo del mondo adolescenziale
Matteo
E’ un dato di fatto: Raul Montanari è in Italia uno dei migliori cantori del mondo adolescenziale. Anche il suo ultimo libro, Il regno degli amici che stilisticamente e strutturalmente è il suo romanzo più completo, ha come protagonisti degli adolescenti, ripresi magistralmente in una Milano deserta durante l’estate del 1982, l’estate del Mundial, della musica rock nervosa che sostituisce le sinfonie tipo The Wall dei Pink Floyd. La bravura di Montanari sta proprio nella sua capacità di presentare al lettore questa età difficile e ancora informe, un’età che è una vera e propria alterità per la vita degli uomini.
I suoi romanzi hanno sempre un doppio registro temporale: quello del presente in cui il protagonista sta vivendo un momento critico e il passato in cui è avvenuto il trauma originario. Da questo punto di vista Il regno degli amici è molto simile a "Il tempo dell’innocenza", anche in quel caso Montanari parlava degli anni Ottanta, in particolare del 1986 e del disastro nucleare di Chernobyl, e del 2011, anno del disastro di Fukuyama. L’uomo, così come la natura, è sempre in bilico, vive in una terra di nessuno e da questo punto di vista rimane un adolescente, è questo quello che Montanari vuole farci capire. Gli anni Ottanta sono sicuramente in bilico tra le passate ideologie degli anni sessanta e settanta e quelli della modernità imperante del XXI secolo, dunque possono essere definiti anni adolescenziali, in cui l’Italia non è ancora un paese del tutto adulto ma ha già vissuto il suo trauma originario, l’assassinio di Moro. Tra le vicende della Storia si intreccia così la storia degli individui che vivono la loro precarietà, in particolare nel periodo dell’adolescenza quando ancora non si è fatta una netta distinzione tra ciò che è bene e ciò che è male.
Quello che spiega Montanari è proprio questo: il male si nasconde dappertutto ed esce quando e da chi meno te lo aspetti. Lo provano sulla loro pelle Demo (l’io narrante de Il regno degli amici), Fabiano, l’amico più smaliziato e sveglio, Elia, detto il Profeta, amante della musica rock progressiva e psichedelica e Velardi, il saggio e il più adulto tra loro. Trovano una casa abbandonata sui Navigli che diventa la loro tana per bere alcolici, fumare spinelli, guardare giornaletti pornografici; un regno dove scoprire il confine sottile tra emulazione e rivalità, complicità e gelosia. In questo paradiso in terra si presenterà Valli, che vive con la mamma in un camper sul fiume, ogni giorno pesca nel canale e dorme su un’amaca posta su un albero, una ragazzina selvaggia, con gli occhi verdi e un corpo esile chiuso in una salopette, che diventa una vera e propria epifania per il gruppo di amici. Così il mondo maschile, con il suo spirito di cameratismo, viene completamente travolto dal mondo femminile di Valli e ne resterà affascinato, soprattutto Demo e Fabiano che, per amore di Valli, finiscono per intaccare il loro rapporto d’amicizia. Sarà proprio il contatto con questo mondo altro che porterà alla fine della loro spensieratezza e felicità, rappresentata splendidamente dalla copertina del libro. Demo, Fabiano, il Profeta e Velardi si scontreranno con la crudeltà e malvagità della vita reale, che lascerà impressa una traccia non solo nel loro cuore, ma anche nei loro sguardi, gesti e corpi.
Raul Montanari
Il regno degli amici
Einaudi, Stile Libero Big, Pagg 316
€ 18
LA FINE DELL'INNOCENZA
Matteo
Ho appena chiuso il libro, spengo la luce del comodino, è ormai notte fonda. Una volta immersi in queste pagine, scritte a quattro mani da Mario Pistacchio e Laura Toffanello, se ne resta completamente catturati. La sensazione che il libro offre è quella di immergersi in profondità nell’acqua, dove diventa fondamentale trattenere il fiato fino a quando finalmente si torna a galla e si può ricominciare a respirare. Bisogna leggerlo tutto d’un fiato, senza pause né compromessi.
Il libro è tutto racchiuso in una splendida frase:
«Non si invecchia mai un po’ alla volta. C’è un momento preciso, nella vita, in cui ti accorgi che è successo. E’ una certezza, e non contano gli anni che hai. Capita quando smetti di andare avanti e ti scopri a guardarti alle spalle. Scruti i tempo che se n’è andato. Lì dietro sono rimasti i tuoi unici amici, i ricordi, l’illusione che niente possa mai finire davvero».
La storia è ambientata nei dintorni di Venezia, a Brondolo, sul Brenta, durante l’estate del 1961. I protagonisti sono cinque ragazzi, che fanno venire in mente i personaggi di Stand by me di Stephen King e Huckleberry Finn di Mark Twain: Michele, Stalino, Menego, Ercole e Vittorio Boscolo (la voce narrante di questa favola nera). Nessuno dei cinque sa che questa sarà l’ultima estate dell’innocenza e della giovinezza. Infatti un evento luttuoso segnerà per sempre le loro vite e li costringerà a diventare adulti troppo presto, quando ancora avrebbero l’età per scambiarsi le figurine dei propri idoli e giocare a calcio immedesimandosi con i calciatori dell’Inter del mago Herrera. In un pomeriggio assolato, mentre disputano l’ennesima partita di pallone, il fratello di Ercole, Narciso, scompare …
Questa scomparsa apre una vera e propria crepa non solo nei ragazzi, ma anche nel corpo intero degli abitanti del paese, arretrato e bigotto che sembra non essere ancora stato toccato dal boom economico e che vive all’ombra del campanile e aspetta per agire le decisioni del parroco, don Antonio.
Dopo la scomparsa di Narciso, il libro si sviluppa intorno alla ricerca della verità, si cerca di capire chi ha rapito Narciso e per quale motivo, di sondare gli innumerevoli silenzi che coprono, come una pesante nube nera, l’intera Brondello. Infatti, oltre dell’arretratezza e del bigottismo di questo paese della provincia veneta, descritti magistralmente da Pistacchio e Toffanello che si inseriscono sulla linea narrativa tracciata da Massimo Carlotto, si parla dell’assoluta incomunicabilità tra padri e figli. Unico personaggio adulto positivo è il nonno di Vittorio, Cestilio, confidente del nipote.
Ma nella ricerca di questa Verità, che verrà fuori inesorabilmente e con tutta la sua prepotenza alla fine del libro, altre domande si pongono alla mente del lettore: quel cane nero che esce da un cespuglio subito dopo la scomparsa di Narciso è la reincarnazione del ragazzo, che ha deciso di cambiare fattezze per allontanarsi da un padre violento? Ma forse la domanda fondamentale, che aleggia lungo tutto il libro, viene direttamente da un libro, in particolare da Il conte di Montecristo che la professoressa ha consigliato a Vittorio come lettura estiva: la vera vendetta è il perdono?
Per rispondere a queste domande non vi resta che una cosa: aprire il libro.
Mario Pistacchio e Laura Toffanello
L'estate del cane bambino
66thand2nd, 224 pp
16 €
TRE UOMINI NEL BOSCO
Matteo
Davvero molto interessante l’esordio letterario di Armando Minuz, che è nato ai piedi delle Dolomiti ma ormai da anni vive a Parma. Proprio nella città emiliana, ma più in particolare sul suo Appennino, è ambientato questo racconto lungo, caratterizzato da una scrittura secca e senza orpelli.
Il protagonista è Emilio, professore di letteratura italiana all’Ateneo parmense, un uomo ferino che vive al limite del mondo. Il racconto inizia con un pugno che Emilio dà sul naso di un suo studente. Alla vista del sangue, che sgorga interminabile dal naso del povero ragazzo, Emilio fugge sconvolto. Il sangue, insieme alla bestialità, sono le costanti di tutto il libro, che vuole riflettere sulle radici familiari: la corporeità e la gestualità sembrano gli unici modi per comunicare.
Dopo il discutibile e drammatico fatto, Emilio decide di tornare nella casa del padre Lando sull’Appennino emiliano, dove è rimasto a vivere il fratello maggiore Leone. Nella sua stanza Leone sta finendo di intagliare un’opera, l’esatta riproduzione dell’Enea, Anchise e Ascanio di Gian Lorenzo Bernini. Da anni Leone aiuta il padre nel duro lavoro dei campi, mentre Emilio è stato ripudiato dal padre, dopo aver scelto di non fare il contadino e di trasferirsi in città.
I rapporti tra i tre uomini sono assolutamente basici ed elementari, i verbi più utilizzati riguardano la bocca, le mani e il corpo in generale. Sembra però che qualcosa aleggi sopra di loro, un’entità che spesso riverbera dalla luce profonda e quasi celestiale che tutte le mattine si intravede dalla finestra della stanza di Emilio. Questa assenza/presenza è il vero punto di raccordo tra questi tre uomini: la madre di Emilio e Leone, la moglie di Lando.
Credo che il titolo possa deviare il lettore dal punto nevralgico del racconto: non si deve guardare tanto ai simboli maschili, come il lavoro nei campi e la caccia, di cui sono grandi esperti Lando e Leone, quanto a quelli femminili che più volte vengono messi in evidenza da Minuz: il camino, inteso come focolare domestico e soprattutto il bosco, simbolo fiabesco della Terra-madre. È proprio nel bosco che i tre protagonisti del racconto, come nelle tragedie greche – perché Minuz rielabora la tragedia antica – cercheranno la loro catarsi e quindi la riappacificazione con il mondo. Nel bosco, alla presenza della madre, Lando, Emilio e Leone cercano di fare i conti con il proprio passato, ma ciò che Minuz cerca di lasciare al lettore è una sensazione di profondo ignoto, data dall’oscurità della vita stessa …
Armando Minuz
Ho portato sulle spalle mio padre
Nutrimenti, pagg 174
€ 15
A Tokyo, cento anni fa
Monica
Che bello questo libro che parla di quotidianità, di vita di coppia mediocre ma serenamente felice (è un ossimoro, lo so, ma illudiamoci che sia possibile) anche se pian piano scopriamo che questa felice serenità poggia su un presupposto imbarazzante, che i due protagonisti vivono con grande senso di colpa.
Sosuke (lui) e Oyone (lei) sono una coppia affiatatissima, che nella Tokyo di inizio Novecento basta a se stessa, in un ripetersi di azioni banali, tra lavoro, faccende domestiche, chiacchiere dopo cena. Ma Oyone è stata la donna del migliore amico di Sosuke prima che quest’ultimo se ne innamorasse, ricambiato. Il fatto di averlo entrambi tradito non rompe la loro felicità, ma è una realtà che pesa sulle loro coscienze, tanto che le continue gravidanze mancate vengono tacitamente vissute dalla coppia come una punizione del fato. Quando poi Sosuke capisce che per una strana coincidenza l’ex amico potrebbe ricomparire del tutto casualmente come ospite di un vicino di casa, decide di rifugiarsi per qualche giorno in un tempio zen, un po’ per curiosità, un po’ per pusillanimità, un po’ per mettere alla prova le proprie capacità introspettive. Da quel periodo di reclusione, accettato dalla moglie con la solita bonomia con la quale accetta qualsiasi decisione del marito ma anche qualsiasi fatto della vita, Sosuke tornerà dimagrito, cambiato, provato nel fisico e nell’animo. Perché si troverà a fare i conti con la sua totale incapacità di concentrarsi, di meditare, di dedicarsi insomma alla vita monastica. E il lettore si immedesima con lui, con singolare e inaspettata empatia, quando lo vede addormentarsi sul quesito postogli dal maestro (“Qual era il origine il mio viso prima che nascessero mio padre e mai madre?”), quando lo guarda contorcersi per il mal di gambe a forza di stare inginocchiato, quando legge che non riesce a svegliarsi nonostante i richiami del monaco che lo accudisce. Dall’eremo tornerà sconfitto (ma senza alcun giudizio negativo ad accompagnarlo, nessuna “pagella” da parte dei monaci), ma anche rafforzato, più cosciente di sé. Ritroverà la solita Oyone, nessuna traccia dell’amico, e la primavera che torna a riscaldare la natura e il clima. “Che bella cosa, finalmente è tornata la primavera!” commenta lei a chiudere la narrazione. “Sì, ma presto sarà di nuovo inverno” aggiunge lui pessimista. Ma è il pessimismo del bambino che non vuole darla vinta, che vuole dire la sua a tutti i costi anche se è l’ultimo a crederci. E il finale assume così una tinta ironica, quella che solo un autore dallo sguardo critico ma generoso, mai cinico, sa darci.
Ironia, grande capacità descrittiva e profonda conoscenza dell’animo umano sono gli ingredienti di partenza di questo romanzo fatto di antieroi, di uomini e donne comuni, che parlano di tutto e niente, capaci di prendersi in giro e di prendere la vita per quello che è. Bella anche l’ambientazione, sia quella urbana di una Tokyo già frenetica un secolo fa sia quella domestica o quella del tempio. Ma a tutto questo la gran parte di noi non avrebbe accesso senza l’ottima traduzione dal giapponese (e utilissimo glossario in appendice) di Antonietta Pastore.
Peccato che Soseki (1867-1916), l’autore dal nome quasi assonante con quello del protagonista, non ci sia più. Così antico e così moderno, essenziale, necessario.
Natsume Soseki
La porta
Neri Pozza, pagg 237
€ 16,00
Tra arcaico e moderno: il ritorno di Ulisse
Matteo
Il libro di Marcello Fois (il secondo di una trilogia, il primo è Stirpe) è scritto in uno stile ottocentesco, sconvolgente nella sua linearità e semplicità. Il lettore, fin dalle prime pagine, si trova immerso, anzi sospeso, in una terra di mezzo fra mito, arcaicità, natura e modernità.
Durante la storia Vincenzo Chironi, un Ulisse del XX secolo, torna ad essere isolano e a vedere con occhi puri e veri la sua Sardegna, la sua Itaca. Tutto è caotico, viscerale e basico, anche l'amore che diventa una forma patologica, una vera e propria malattia che porta alla tragicità. Ed ecco la parola che può sintetizzare il romanzo: tragico. Il tragico della Seconda guerra mondiale fa da sfondo alla tragicità della famiglia Chironi, vera vittima della Storia. Un libro da “ruminare”, come ha scritto Nietzsche per la sua Geneaologia della morale.
Marcello Fois
Nel tempo di mezzo
Einaudi, pagg 272
€ 20,00
Mosè il primo scalatore
Matteo
Erri De Luca descrive poeticamente il momento più alto dell'Antico Testamento: l'annuncio dei dieci comandamenti. Mosè è visto come il primo scalatore del mondo il quale, salendo al cielo ed avvolto dalle nuvole, intrattiene un vero scontro con Dio che gli consegna il decalogo, il codice etico per il popolo ebraico in particolare e per il mondo in generale.
Dio ha passato all'uomo i suoi comandamenti, che non sono più parola divina ma diventano parola umana. Compito dei maschi sarà quello di ricordare questo momento, di trasmettere la memoria di questo evento divino. Come le donne danno la vita procreando, così gli uomini, da quel momento in poi, daranno la vita mediante il ricordo ... Nelle poche pagine di questo pregevole pamphlet, il lettore sente tutta la durezza del deserto, tutta la violenza dell'incontro-scontro tra Dio e Mosè, tutto il timore ma anche la speranza di un popolo, quello eletto, a cui è affidato il compito più difficile nella storia dell'umanità: diffondere il verbo divino.
Mosè diventa il mediatore tra il cielo e la terra, una volta che sceso il decalogo diventa patrimonio dell'umanità. Il valore non è più soltanto metafisico, ma etico. Compito di tutto il genere umano è quello di non dimenticare questo evento e di rispettare i dieci comandamenti - i quali non hanno valore solo normativo, ma anche e soprattutto relazionale. Non a caso Levinas scriverà che nell'Altro bisogna vedere il volto di Dio, come è successo a Mosè sul Sinai. Solo in questo modo è possibile rispettare il decalogo ...
Un piccolo libro che affronta un tema universale con grande delicatezza e sensibilità, per fare in modo che anche ai nostri giorni non venga dimenticata quella aspra battaglia tra Dio e Mosè per l'etica umana
Erri De Luca
E disse
Feltrinelli, pagg 89
€ 10,00
Il potere delle parole
Matteo
Il libro del cantastorie Roberto Vecchioni, da poco ristampato, ha un fondamento biblico. Nel secondo capitolo del Genesi, in un passo per lo più considerato di poca importanza, si mostra la capacità umana di dare un nome alle cose. Come Dio ha separato la luce dalle tenebre, l'uomo, creato ad immagine di Dio, pone ordine nel mondo caotico attraverso la separazione e la distinzione (le "sfumature" come le definisce Vecchioni) date da concetti linguistici.
Le parole non sono importanti solo per armonizzare il mondo, ma anche perché si fanno veicolo dell'amore e, soprattutto, della memoria: senza parole non c'è passato, né presente e tanto meno futuro... Gli abitanti di Selinunte sono costretti ad esprimersi in modo animalesco, senza riuscire ad esprimere la complessità e le sfumature dei propri sentimenti.
Chi potrà salvare la città da questa specie di apocalisse linguistica? Forse un bambino (che come dice Pessoa: "si è sempre bambino, il passato che resta"), che ha ancora la capacità di vedere l'incanto della vita...
Questo libro è anche un inno sulla bellezza del leggere e, soprattutto, della diversità e dell’anticonvenzionale che la cultura porta. Essere anticonvenzionali è un pregio in un mondo omologato che, il più delle volte, si esprime con gesti forti e senza senso, senza proferire parola... Il vero compito dell'uomo è quello di esprimersi con le parole e le sue diverse sfumature, per creare un Diario per Dio, da portargli il giorno che lo si incontrerà...
Da leggere
Roberto Vecchioni
Il libraio di Selinunte
Einaudi, pp 72
€ 8,00
Se la felicità è un optional
Monica
Certamente questa è una recensione disonesta, politicamente scorretta, vergognosamente partigiana. Perché il libro l’ho tradotto io, insieme alla mia bravissima collega e amica Maria Gottardo.
Dunque siete avvisati, sto per comporre un peana. Le Tre Sorelle è un romanzo cinese contemporaneo, scritto da un autore (Bi Feiyu, classe 1964) che in Cina è molto noto e che in Italia è già stato tradotto (sempre da noi e sempre per Sellerio). E’ la storia, per l’appunto, di tre sorelle che crescono in una Cina rurale, in un periodo a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta. Tre ritratti di donne molto diverse, tre ragazze che lottano ciascuna a modo suo per ottenere rispetto, benessere, una posizione nella società. Forse non la felicità, ma questo in fondo non sembra importare granché a nessuna delle tre. Come a dire che quando le condizioni intorno sono dure (e nelle campagne cinesi di quegli anni lo erano eccome) la felicità è secondaria, è un’opzione non contemplata, un lusso cui nemmeno si pensa. La trama non ve la racconto se no non lo comprate più. Come fare per invogliare i lettori italiani a leggere narrativa cinese? Mi ci arrovello da anni. Lo stile e le tematiche sono diverse dai modelli cui siamo abituati e coi quali noi occidentali siamo più o meno cresciuti, questo è vero, ma non è un motivo sufficiente per non provarci: suvvia, prendetevi questo Bi Feiyu, leggetevelo, regalatelo (anche solo per la SPLENDIDA traduzione…) E se non vi piace venite a lamentarvi in libreria, io vi aspetto.
Bi Feiyu
Le tre sorelle
Sellerio, trad. dal cinese di Maria Gottardo e Monica Morzenti
€ 16, pagg 360
Un libro/un gioco: esperimento di recensione a quattro mani
Laura e Matteo
Vi piace il cinema? Riguardate almeno tre volte al mese Il Padrino, C’era una volta in America e Shining?
Indovinare duecentouno capolavori del cinema, smontati in sequenza di immagini, sarà una bella sfida per voi cinefili.
E’ un bel gioco e, vi avvisiamo, il Natale è vicino …
Matteo Civaschi, Gianmarco Milesi, H-57
Filmology
Rizzoli, pagg 224
€ 9,90
Perché essere una principessa?
Matteo
Tutte le bambine vogliono essere delle principesse, trovare il proprio principe azzurro e sposarsi. Tutte tranne una: la piccola Olivia.
Molto curiosa e un po’ birichina, Olivia riempie la testa di mammae papà di tante domande e non vuole mai andare a dormire. In questo caso chiede: Perché vogliono essere tutte uguali? Non è molto più bello e divertente distinguersi?
Olivia sta vivendo una vera e propria crisi di identità: ad Halloween si è travestita da facocero e, mentre la mamma le racconta una fiaba, non si immedesima assolutamente nella principessa, prigioniera nella torre, che viene liberata dal principe.
Ma allora cosa fare? Nel letto, con le coperte rimboccate, tra il sogno e la veglia comincia a meditare: potrebbe diventare un’infermiera, adottare orfanelli da tutto il mondo o fare la giornalista d’assalto e scoprire tutti i traffici illeciti delle grandi società finanziarie. Ma all’improvviso l’idea che la fa alzare di soprassalto: in effetti perché essere una principessa quando si può essere regine?
Un albo illustrato dedicato alle bimbe “regali” che si vogliono distinguere.
Età di lettura: 3 anni
Ian Falconer
Olivia e le principesse
Edzioni Nord-Sud, pagg 32
€ 13,90
La grande bellezza del quotidiano
Matteo
Potrebbe sembrare il solito modo per “seguire una moda”, ci si potrebbe chiedere il perché di una recensione su un libro di Francesco Piccolo, fresco di Premio Strega e che sicuramente non ha bisogno di ulteriore pubblicità. Vorrei invece essere una voce un pò fuori dal coro e proporre l’esordio narrativo di Piccolo, per dirvi fin da subito che forse è l’unico, tra la sua caotica produzione, che meriti davvero di essere “spulciato” così da liberarlo dalla posizione supina che ha assunto sugli scaffali della libreria.
Innanzitutto la struttura: non è un romanzo, ma nove racconti di vita quotidiana, una vera e propria analisi minuziosa della vita degli esseri umani dall’infanzia fino alla giovinezza. Il lettore passa in rassegna diverse storie, alcune divertenti, altre surreali ma tutte con un pizzico di malinconia nostalgica sui tempi andati: dalla storia del figlio che non capisce perché la madre gli chieda sempre di stare dal lato della strada mentre accompagna il fratellino a scuola, al viaggio picaresco di Mimmo e dei suoi tre amici per arrivare in America, raggiungendo il mare su una zattera lungo il fiume Volturno.
Poi lo stile: in ogni racconto c’è una sorta di calma meridiana che profuma di sud Italia, una vera e propria pace meditativa che Piccolo utilizza per scandagliare l’animo umano in tutti i suoi anfratti. Ogni gesto e ogni sguardo diventano un particolare che nasconde qualcosa di meraviglioso; in questo consiste la grande bellezza della quotidianità: riuscire ad assaporare ogni attimo visto come principio di tutte le cose.
Un piccolo libro sulle esperienze della vita
Francesco Piccolo
Storie di primogeniti e figli unici
Einaudi, pagg 136
€ 9,50
Pittori naif lungo il fiume Po
Matteo
Alfredo Gianolio, nato a Suzzara ma residente a Reggio Emilia, è stato per tutta la vita un avvocato dei poveri e delle cause perse in partenze. Negli anni Settanta, grazie alle sollecitazioni dell’amico di Luzzara Cesare Zavattini, ha cominciato a registrare le vite di alcuni artisti naif che vivono o vivevano lungo il fiume Po. Come moderno cantore, ha ridato linfa vitale alle narrazioni orali di questi pittori che non sanno dipingere e neppure scrivere, ma che si oppongono alla cultura ufficiale che socraticamente crede di sapere ma non sa. In fondo questi artisti sono come i fiori in serra, se vengono messi a contatto con l’aria esterna muoiono …
Come il lento e lungo Po, queste brevi storie oscillano tra la storia con la esse maiuscola, in particolare le vicende dell’occupazione tedesca e della Resistenza, ed eventi di vita quotidiana, le lunghe giornate spese a pescare, a lavorare nei campi, a dipingere paesaggi e animali oppure a preparare i tortelli di zucca.
Come ne L’Antologia di Spoon River o Winesburg, Ohio, attraverso questi racconti registrati e trascritti da Gianolio, il lettore ha la possibilità di addentrarsi nella vita di una pittoresca comunità che, come nei quadri di Udo Toniato, fa dell’amarcord la sua poetica preferita.
Un libro per veri sognatori
Alfredo Gianolio
Vite sbobinate e altre vite
Quodlibet, pagg 240
€ 14,50
Madame Bovary vive a Boston!
Matteo
Ho letto questo libro su consiglio di un'amica. La devo assolutamente ringraziare. Il piccolo libro di Savage è davvero interessante, perché mescola diverse tematiche e le sintetizza tutte nella figura del protagonista: Firmino, un "ratto" che vive in una piccola e selezionata libreria di Boston, nutrendosi (in senso letterale e metaforico) di libri. La lettura, oltre a permettere la sopravvivenza fisica ed intellettuale di Firmino, diventa un mezzo di evasione dalla realtà, una sorta di droga, a cui difficilmente potrebbe fare a meno.
Firmino, come la Madame Bovary di Flaubert, proietta la mente in una specie di paradiso terrestre; ma ogni volta che torna dai suoi voli pindarici resta deluso dalla realtà, perché si sente intrappolato in un mondo che non gi appartiene. Riprendendo la lezione di Schopenhauer, Firmino non solo si accosta alla figura femminile uscita dalla penna di Flaubert, ma la sua stessa vita sembra quella del "contemplatore" descritta dal filosofo di Danzica. Firmino non è un "lottatore", ma è colui che ha preso coscienza dell'esistenza di cui però si rifiuta di essere esecutore, diventando una specie di eroe della noluntas. L'unica via di uscita (o, se si preferisce, via di fuga) per questo topastro intellettuale sembrerebbe il ritorno, di pascoliana memoria, al nido famigliare...
Sam Savage
Firmino. Avventure di un parassita metropolitano
Einaudi, pagg 179. Trad. di Evelina Santangelo
€ 14,00
Un formidabile metaromanzo
Matteo
Emanuele Trevi ha saputo scrivere un libro davvero interessante. Un vero e proprio metaromanzo, nella scia dello sperimentalismo tipico di Pier Paolo Pasolini. Il volume è inoltre la dimostrazione del coraggio di una piccola casa editrice come Il Ponte alle Grazie, che ha pubblicato un piccolo capolavoro.
Il libro alterna la storia biografica dell'autore che si è trovato a lavorare presso il romano Fondo Pasolini all'inizio degli anni novanta, dove troneggiava una perfida Laura Betti, soprannominata non a caso La Pazza e pagine che sembrano saggi di critica letteraria su Pier Paolo Pasolini, in particolare sul suo ultimo romanzo incompiuto, Petrolio. Ne esce, da una parte, l'immagine di uno scrittore - Emanuele Trevi - assolutamente innamorato di Pasolini e dall'altra si delinea la poetica pasoliniana incentrata sul tema della morte, intesa come vera e propria iniziazione alla vita secondo il rito misterico di Eleusi.
Un libro che consiglio caldamente di leggere
Emanuele Trevi
Qualcosa di scritto
Ponte alle Grazie, pagg 256
€ 12,00
L’America post 11 settembre
Matteo
E' emblematico che il libro termini con due domande, lasciando aperto il racconto come se fosse sospeso.
Il libro ha come unico ed assoluto protagonista un ragazzo di diciott'anni: James Sveck che non ha molto a che vedere con il giovane Holden di Salinger. James è purtroppo troppo conformista, soprattutto quando pensa che una cosa che non si vuole fare vada fatta, nel nostro caso la sua gita a Washington e, poi, nella scelta di andare all'università, mentre il suo desiderio sarebbe quello di mollare tutto e prendere una casa nel Midwest. La scelta di James sarebbe quella di un esilio autoimposto, perché si sente a disagio nell'interagire con gli altri, anche con quelli a cui vuole bene (si pensi all'amico John, che lavora nella Galleria d'arte della madre). Ma, durante un viaggio in treno, scopre che vivere a New York è come essere in esilio tutti i giorni.
Peter Cameron descrive un'America vulnerabile, in cui le persone sono come atomi impazziti, che difficilmente riescono ad incontrarsi e quando si incontrano i rapporti sono superficiali e vuoti. L'unico rapporto sincero e vero che James intrattiene è con la nonna Nannete, che rappresenta il passato positivo dell'America. Così James diventa il simbolo di una generazione di americani che hanno vissuto in prima persona la tragedia dell'11 settembre e le guerre in Iraq ed Afghanistan. Una generazione che si sente fragile ed indifesa, in balia degli eventi. Il titolo del libro non si riferisce solo a James, ma a tutta l'America, che vive in uno stato di schizofrenica vulnerabilità, in una fase postmoderna e post metafisica (James, in un punto del racconto, esprime il suo rammarico per non essere religioso, perché sicuramente la religione lo aiuterebbe nei momenti difficili): "un giorno questo dolore ti sarà utile", perché, come dice la nonna a James: «A volte le brutte esperienze aiutano, servono a chiarire che cosa dobbiamo fare davvero ... godersi i momenti felice è facile».
Peter Cameron
Un giorno questo dolore ti sarà utile
Adelphi, 206 pagg, trad. di Giuseppina Oneto
10 €
La traccia della memoria
Matteo
Michele Mari riesce a scrivere un libro davvero bello, che si inserisce nella linea letteraria di Robert Stevenson ed Edgar Allan Poe per le sue ambientazioni avventurose e neogotiche.
Il libro si struttura su un doppio registro linguistico: da una parte la cultura colta di un ragazzino, Michele, che si nutre famelicamente di romanzi di avventura e di gialli, e dall'altra la cultura popolare dell'Uomo del Verderame, il contadino Felice, che agli occhi di Michele viene visto come un mostro, ma un mostro amico che gli dà la possibilità di entrare nella sua testa, piena di voragini e di crepe ... Ed ecco che in questo connubio tra cultura dotta e cultura popolare Michele rimane affascinato dalla visione del mondo di Felice e dovrà così ricostruire una storia che ha come protagonisti conigli, lumache francesi ed un enigmatico uomo in divisa. Mari riesce a costruire un romanzo freudiano, in cui la rimozione diventa la protagonista assoluta e Michele tende, come Robinson Crusoe, a cercare le tracce della memoria lasciate da Felice ... Nella consapevolezza che la storia non è del tipo teorizzata da Hegel, ma è costruita dai ma e dai se. Sono proprio i ma e i se a rendere imprevedibile e stupenda la Storia, che si trasforma in storie ... Un libro assolutamente da leggere.
Michele Mari
Verderame
Einaudi, pagg 164
€ 18
E voi per che decennio optereste?
Monica
Immaginatevi un 1984 scritto oggi con piglio umoristico ma non per questo meno drammatico. In un futuro collocabile grosso modo a metà anni 2000 il mondo, anzi una parte di esso o forse solo il nostro paese o magari solo un pezzo d’Italia, è stato artificialmente suddiviso in Zone in cui il tempo si è fermato rispettivamente agli anni Sessanta, Settanta, Ottanta, Novanta e Zero. Impossibile varcare i confini da una Zona a un’altra, così la gente finisce col crescere e invecchiare nella terrificante sicurezza di uno stesso decennio ripetuto all’infinito. Walter Fontana, brillante autore di questo romanzo a metà tra il divertissement fantascientifico e lo studio sociologico, ci diverte (parecchio) facendoci scorrazzare tra i decenni e riportandoci alla mente modi di dire o di far merenda del tempo che fu (bellissimo il dialogo tra un abitante di Zero e uno di Sessanta sull’Ace, succo di frutta per il primo e candeggina per il secondo), facendoci riflettere non senza un po’ d’amarezza sulla nostra fragilità piscologica, le nostre paure, la nostra propensione a farci cullare da illusioni che sappiamo inaffidabili ma che scegliamo pur di non impegnarci a fare i conti con la libertà. Libertà che il protagonista riacquista a fatica nell’ultimo capitolo, in un finale travolgente e rocambolesco. Chissà che per contagio questa voglia di libertà non venga anche a noi. Leggiamolo.
Walter Fontana
Splendido visto da qui
Giunti, pagg 284
14€
L’Heidegger di Franco Volpi
Matteo
Gli scritti raccolti nel volume sono le prefazioni e postfazioni alle opere di Heidegger curate dal filosofo, scomparso prematuramente, Franco Volpi tra il 1978 e il 2007. Volpi, che come traduttore di Heidegger non resta indifferente alla vita privata del “mago di Messkirch” e che si è sempre tenuto alla larga da quegli heideggeriani, o presunti tali, che hanno ridotto il suo pensiero ad una mera scolastica, ha il merito di strappare il filosofo al luogo comune del pensatore astratto e oscuro.
Per Volpi, Heidegger ha avuto l’abilità, anzi la grandezza, di sviluppare in modo capillare il mondo contemporaneo: «Heidegger intende e pratica la filosofia non come un’attività teoretica fra le altre, come un sistema di teorie e dottrine indifferente alla vita, ma come una comprensione della vita che implica una forma di vita e dà forma alla vita». Da qui la sua controversia con Ernst Jünger sulla tecnica intesa come ultima manifestazione del nichilismo, che andava combattuta vivendone fino in fondo la drammaticità. Heidegger si oppone all’idea di Jünger secondo la quale fosse già avvenuto l’oltrepassamento della tecnica. Il mago di Messkirch è un filosofo radicale, che ha tentato in tutta la sua opera di tornare all’origine del pensiero, ossia a quella nozione di verità che aveva subito un cortocircuito a causa del pensiero platonico e aristotelico, consistente in una dimenticanza dell’Essere oppure in un compimento nichilistico della metafisica nella tecnica. Heidegger tenterà di combattere la regressione della metafisica che, a partire da Platone, ha fatto della verità un valore conoscitivo e non un Evento. Per questo diventa fondamentale il termine Ereignis, inteso come “evento-appropriazione”, ossia coappartenenza dell’Essere e dell’esserci. Lo scopo di Heidegger è quello di smarcarsi dal linguaggio della metafisica e dal concetto tradizionale di Essere. Da Platone fino a Nietzsche l’Essere era stato imprigionato, per liberarlo era indispensabile vivere fino in fondo tale crisi. Da qui l’importanza dei seminari su Nietzsche, che rappresentano il periodo più complesso e duro di Heidegger, che lo portano a pensare al suicidio. E’ indubbio che Heidegger non riuscirà a sollevarsi filosoficamente dal de profundis di Nietzsche, dall’«abisso Nietzsche».
Dal 1936 l’opera heideggeriana sembra il diario di bordo di un naufragio, il naufragio dell’Essere; la bravura di Volpi consiste proprio nell’aver mostrato la tragicità filosofica nella quale ha versato il filosofo di Messkirch.
Franco Volpi
La selvaggia chiarezza. Scritti su Heidegger
Adelphi, pagg 336
€ 16,00
Dalla Cina all’india, tra treni carretti e camion
Monica
Vikram Seth oggi è uno dei più famosi e apprezzati e tradotti autori indiani. E’ anche un ometto affabile e brillante che parla una varietà impressionante di lingue, tutte benissimo. Tra queste il cinese, che scrive anche in una calligrafia che non teme confronti (mi pregio di avere, su un libro, una sua dedica proprio in cinese). Seth, indiano di formazione internazionale, trascorse anche un biennio, nei primi anni Ottanta, presso l’Università di Nanchino, al termine del quale pensò di rientrare in India percorrendo via terra parte del tragitto. Partendo da Nanchino arriva in treno nella regione nordoccidentale della Cina, poi trova un passaggio in camion e, ottenuti i permessi necessari, arriva in Tibet per poi sconfinare in Nepal e da lì prendere un volo per Delhi.
In questo racconto di viaggio, nonché bellissima “fotografia” della Cina di quegli anni, Seth ci rende partecipi delle sue vicissitudini, dei rapporti con le persone che incontra (privilegiati dal fatto che Seth parla cinese) e soprattutto delle tante e acute osservazioni su quel che vede. Interessanti soprattutto le riflessioni che scaturiscono dal confronto dei due giganti asiatici, India e Cina, in un periodo in cui certo non si immaginava che un giorno sarebbero diventati le colonne dei BRICS: la Cina era da poco uscita dalla Rivoluzione Culturale e l’India era ancora un paese semiarretrato con molti problemi economici e demografici.
Pubblicato in inglese nel 1983, il libro uscì in traduzione italiana nel 2001 per EDT e oggi Longanesi ce lo ripropone per la gioia di coloro ai quali fosse all’epoca sfuggito. A me piacque immensamente allora e l’ho riletto d’un fiato adesso, con grande nostalgia.
Vikram Seth
Autostop per l'Himalaya
Longanesi, pagg 256. Traduzione di Alessandro Cogolo
€ 16,40
Piccola grande Polleke
Matteo
Il libro di Guus Kuijer è davvero pregevole. La protagonista è una bambina di 12 anni Polleke, che da grande vuole fare la poetessa e che ha già sulle sue piccole spalle una serie infinita di questioni che affronta con ironia e sensibilità.
I temi trattati dall'autore sono di grande attualità: famiglie allargate - è il caso della migliore amica di Polleke Caro il cui padre è omosessuale e ha dato il proprio seme per l'inseminazione artificiale della madre che ha un compagno (il problema per Caro sarà capire chi chiamare papà) – il multiculturalismo e il razzismo - straordinaria la storia d'amore fra Polleke e il marocchino Mimum, già promesso sposo ad una ragazza marocchina – il tradizionalismo e la religione, visti come ostacolo ma anche come una possibilità per avvicinarsi alle persone care.
La piccola Polleke è in realtà molto più adulta di tutti gli adulti che le girano intorno. L'immagine che viene data dei grandi è davvero tragica: uomini e donne che hanno grosse difficoltà a vivere bene i propri sentimenti e decisamente insani. La piccola Polleke quindi tenta di superare i momenti difficili attraverso stupende poesie, che si intervallano all'interno del racconto di Kuijer. Un libro da leggere, soprattutto perché affronta problemi che in Italia sono ancora di difficile digeribilità e smonta l'idea, ormai tutta italiana, che esista unicamente la famiglia tradizionale da Mulino Bianco.
Guus Kuijer
Per sempre insieme, amen
Feltrinelli Kids, pagg 96, trad di Valentina Freschi
€ 11,00
Se si legge, non tutto è perduto
Monica
In un saggio/intervista condotto da Giorgio Zanchini, Marino Sinibaldi, oggi direttore della terza rete radiofonica Rai e ideatore dell’ormai storico programma Fahrenheit, ripercorre la storia della propria maturazione culturale, anche attraverso l’evolversi dei media sullo sfondo di un’Italia del dopoguerra che passa dalla contestazione alle radio libere all’annichilimento televisivo. Ci racconta del suo passare da una fase formativa in cui la politica e l’attenzione al sociale sono il cardine attorno al quale ruota e si amplia la sua sete di conoscenza, a una fase di impegno e crescita all’interno del mezzo radiofonico che lo porta poi a ricoprire il ruolo importante che occupa tuttora.
Sinibaldi non è un intellettuale nostalgico che lamenta la perdita di antichi valori, né tanto meno uno che tema l’avvento del digitale (sì al digitale no al virtuale, pare essere il suo slogan più ricorrente), al contrario sembra rinfrancarci sulla possibilità, se non di rivoluzionare il mondo, di spostare, come dice il titolo, il confine “un millimetro più in là”. Il confine tra il progresso (vero) e lo sfascio, tra la crescita culturale e lo sfacelo, insomma tra l’andare avanti in modo assennato o lasciarsi trascinare passivi alla deriva. E il segreto sta tutto nel leggere, nel frequentare letterature, anche nell’isolarsi e perdersi tra le pagine (cartacee o digitali) di un libro, saggio o narrazione che sia.
Il tutto in una lunga intervista mai noiosa né banale, molto lucida, colloquiale senza cadere nel luogo comune. Come quelle chiacchere che se siamo fortunati ci capita di fare ogni tanto con un amico intelligente, che magari non svela soluzioni inarrivabili ma che con la sua visione nitida e scevra di pregiudizi ci aiuta a scoprire, della realtà che avevamo sotto gli occhi, un lato nuovo, un’angolazione dalla quale non ci eravamo mai sporti a sbirciare e che un po’ ci conforta, soprattutto a noi che i libri li vendiamo.
Un ulteriore plus del volumetto (poco più di 120 pagine in un formato tascabile e agilissimo) è un’appendice che cita per esteso tutti gli estremi delle opere citate nel corso della conversazione. Che sono tante e variegate e fanno nascere altre curiosità. In questo Sinibaldi è, da sempre, davvero maestro: condividere, trasmettere curiosità.
Marino Sinibaldi e Giorgio Zanchini
Un millimetro più in là, intervista sulla cultura
Editori Laterza, pagg 137
12 €
Un cinese ben tradotto da un traduttore che il cinese non lo sa
Monica
Prendo spunto dalla Laura (vedi qui sotto) e cercando anche di emulare la sua encomiabile stringatezza parlo anch’io di un libro cinese, però molto più vecchio di quello di Mo Yan. E’ di Lu Xun, uno scrittore importantissimo in Cina mentre da noi non lo conosce quasi nessuno. Grande intellettuale, pensatore lucido e innovativo, fu tra gli animatori del rinnovamento culturale della Cina del primo Novecento. La vera storia di Ah Q è un classico, una novella che mette a nudo le debolezze di un fanfarone senza lavoro e senza dimora, uno che si crede un superuomo ma vive da pezzente ed è pieno di pidocchi. E per Lu Xun era una metafora della Cina di quegli anni, una Cina in piena disfatta che lui cercava di risvegliare in tutti i modi. In questo libro sono raccolti altri suoi racconti famosi, che andrebbero letti tenendo sullo sfondo mentale la Cina di quegli anni. Da sottolineare che questa edizione ci ripropone una bellissima traduzione di uno che il cinese non lo sapeva per niente: Luciano Bianciardi, incaricato negli anni ’50 da Giangiacomo Feltrinelli di tradurre quest’opera che l’editore aveva intuito come fondamentale. Bianciardi si basò su un’edizione inglese e il risultato è ottimo. Perché la regola ferrea (mai tradurre un’opera da una lingua che non sia quella originale!) può essere infranta, se a infrangerla è un Signor Traduttore come Luciano Bianciardi.
Lu Hsün (Lu Xun)
La vera storia di Ah Q e altri racconti
SE Assonanze, pagg 207, trad. di Luciano Bianciardi
€ 21,00
VITA CINESE
Laura
Alla ricerca di mondi sconosciuti, ho incontrato "L'uomo che allevava i gatti "
Mo yan, 9 racconti, vita cinese. Mondo sconosciuto visto che non conosco la Cina, la sua storia, se non quel poco che tutti sanno. E mi sono trovata in una natura descritta con precisione, non pignoleria, amorevole poetica delicata. Campi di girasoli, erba, foglie,torrenti, ruscelli, uccelli; colori suoni odori. Una natura conosciuta amata, che dà da vivere. Ma una vita pesante. Gli uomini sono induriti,piegati persino crudeli, come se non potessero permettersi il lusso di sentimenti.
Ma poi leggi " Il tornado" e ti commuovi per l'intensità del rapporto tra nonno e nipote, pudico senza parole. Sta tutto in un ciuffo d'erba.
E poi leggi "L'uomo che allevava i gatti", l'ultimo dei 9 racconti, e conosci una specie di pifferaio magico arcaico buio inquietante.
E così questo libro mi ha respinta affascinata infastidita stupita meravigliata conquistata.
Mo Yan
L'uomo che allevava i gatti
Traduzione a cura di Mariarita Masci
€ 10,80 Einaudi
Nel labirinto della storia
di Matteo
Sebastiano Vassalli, come un moderno Omero, si fa cantore della guerra tra Cimbri e Romani avvenuta nel 101 a.C.
Una volta chiuso il libro rimane in bocca la polvere della battaglia, che si svolge tra Novara e Vercelli in terre al tempo ancora selvagge.
e che offre la possibilità all'autore di fare alcune riflessioni sulla storia, la violenza e l'amore.
In queste terre selvagge non si sfidano soltanto due modi diversi di rappresentare il mondo: quello bellicoso dei Cimbri e quello ambizioso dei Romani;
il lettore assiste alla contesa all'interno delle due schiere tra il nuovo, rappresentato da Boirige e Caio Mario, e il vecchio, Agilo e Lucio Silla.
Ma sulla storia con la esse maiuscola, con i suoi intrighi e le sue vergogne, domina l'amore tra Tasgezio e Sigrun, la storia dei vinti.
Un libro da avere nella propria biblioteca
Sebastiano Vassalli,
Terre selvagge,
Rizzoli, pp.297,
euro 18,00
Persone sole che guardano un fiume impazzito
di Mauro
Roma nord, ponte Milvio, il Tevere minaccia di esondare e piove. Sembra piovere sempre su questo angolo di Roma,
in questo doloroso e catartico esordio di Stefano Sgambati (classe 1980).
Gaspare è un signore distinto dai modi raffinati e, fin troppo, studiati che durante una cena confessa l'inconfessabile ai suoi ospiti,
Carmen e Corrado, mandandoli volutamente in crisi. E poi c'è Irene, pericolosa come un fiume in piena, figlia e vittima di Gaspare.
E poi c'è Matteo, libraio, che vorrebbe salvarla dalle sue pillole, dal suo sesso promiscuo, dal suo padre accentratore. Che vorrebbe arginarla.
Cinque personaggi che s'incontrano e scontrano in ripetuti rapporti di forza che come il fiume si gonfiano e sgonfiano;
eroi imperfetti che ricercano nella solitudine dell'altro le motivazione della propria felicità e la forza di andare avanti.
Un noir dei sentimenti. Tracimante.